MUNICH di Steven Spielberg

REGIA: Steven Spielberg
CAST: Eric Bana, Daniel Craig, Geoffrey Rush
SCENEGGIATURA: Tony Kushner, Eric Roth
ANNO: 2005

TIME TO DREAM NO MORE

Nero totale sul Cinema Americano, quello post-11-Settembre, avvolto dal terrore-terrorizzato dai terroristi che più che mai emettono-emanano paura angoscia e sofferenza. Così come Munich è Cinema sofferto e sofferente, Hollywood si sveglia dalle ceneri dei suoi anni 30’40’50’, decenni dove la sovversione e la minaccia erano esorcizzate dalla fabbrica dei sogni: per le strade si muore e si ha paura, ma si preferiva ballare. Non è più così in questa società post-moderna, ed in fondo Spielberg ce lo aveva già esposto chiaro e tondo (in)direttamente con La Guerra dei Mondi, film reazionario che come un grido lontano (alieno) ci delineava con estrema lucidità il ritratto dell’America (mondo) odierna. Quelle urla soffocate (e soffocanti) che giungono comeal solito dagl’amati autori (non quelli fasulli come Von Trier e il giocattolo Dogville et affini) come Cronenberg e i suoi secoli di violenza, e che ora trova spazio e tempo in uno Spielberg che ha scavato tra le fossa resuscitando ancora una volta (o semplicemente rendendo psiche e anima) quella paura e quel buco nero che il Cinema (troppe) poche volte ha affrontato e che egli abbraccia con un sacrificio più grande di lui: rinunciare al proprio essere, al propriotopoi e al proprio distintivo, rinunciare al sogno.

Hollywood come specchio psicologico, come riflesso(riflessione) emotivo(emotiva), come sovrimpressioni tra Cinema e realtà, realtà e Cinema, che si trasfigura nell’iperbolica trascendenza verso la spazzatura viscida e sporca. Il sogno è infranto e disfatto , non è più tempo per sognare, nemmeno per il sognatore per eccellenza cioè Spielberg, ormai anestetizzato e noir, nonostante si tenti (ritenti) ancora di sorridere ogni tanto (diverse le scene dal tono ironico), come per dirci che il buco è chiuso ma uno spiraglio di luce traspare (o no?).
E noi lì, come Eric Bana nella locandina del film, seduti davanti ad una finestra con una pistola in mano, racchiusi e inghiottiti dall’ombra (dalle ombre), in cerca di pietà e di salvezza che ormai non arriverà più per nessuno, tantochè persino un gesto come fare l’amore con la propria moglie diventa proiezione di un’infezione fatale che continua a minacciare. Sempre. Come se quei colori saturi della fotografia di Janusz Kaminski disegnassero un nuovo cielo in questo nuovo giorno del giudizio, un Cinema di fantasmi (per la prima volta nella filmografia di Spielberg, in questo senso) che si trasfigurano fin dalle prime scene, quelle dei fatti di Monaco 72’ che ci vengono mostrati con i veri documenti visivi dell’epoca, quelli trasmessi dai tg, il brivido che (s)copre il meta-Cinema in meta-Documentario, usato non a livello informativo-descrittivo, ma come (s)oggetto da stuprare con violenza (mai come in questo film troviamo tanto sangue (e sesso) in Spielberg), dove intricarsi e intricare come fosse un labirinto senza uscita. Ed è proprio così, tantochè Spielberg trasforma il passato in presente (di conseguenza in futuro), tantochè il film non sembrerebbe finire in realtà, proprio perché non è uno specchio storico, ma metempsicotico, luoghi di anime e spiriti, spiriti e anime condensate e stratificate dalle pulsioni iper-drammatiche di questo autore ebreo, anche se trattasi di un dramma spesso raffreddato, come le lacrime trattenute di Eric Bana durante la telefonata a sua figlia. 
E’ Cinema disfatto e disfattista, Spielberg disfa la sua macchina da presa, la fluidità narrativa che ha sempre accompagnato le sue pellicole, tantochèEmanuela Martini di Filmtv definisce Munich come il “figlio di Duel”, a cui aggiungerei la parola “labirintico” e “anima” (il figlio labirintico dell’anima di Duel) un ritorno cinematografico alle proprie origini, agli zoom, ai riflessi, ai punti di vista multipli, alle inquadrature che si rivelano a poco a poco, seppur con il solito difetto degl’autori iperbolici come Steven, che amano troppo ciò che hanno girato, rifiutando di tagliare e dilungando l’effettiva (rap)presentazione d’intermezzi routineschi inpalpitanti (le varie tappe europee per ammazzare i terroristi, peccato). 
Ma è davvero come se il regista di Schindler’s List fosse ritornato alla rabbia e alla carica dei suoi colleghi della new-cinema U.S.A anni 70’, tra ScorseseCoppola DePalma; l’ideologia è quella. Lo spirito, la rabbia, e il pessimismo, anche.
E’ quindi un ritorno indietro nel tempo, la ricerca di un autore per essere ciò che non è mai stato (tra i registi della new hollywood, solo Spielberg e Lucas si sono discostati per storie e rappresentazioni, in quanto appunto sognatori), dunque un profondo sguardo allo specchio, un po’ come chiedersi: cosa avrebbe fatto Spielberg negl’anni 70’ se non fosse stato un buonista? Il risultato è nero come il carbone. Pesante come l’aria che respiriamo, tra quelle torri gemelle che ancora una volta (ri)compongono un puzzle fantasma, tra il nulla e il nulla, con la strana e paurosa percezione che il mondo ci cadrà (ci ècaduta) veramente dalle mani, come cenere spenta.

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