HARRY POTTER E I DONI DELLA MORTE – PARTE I di David Yates

REGIA: David Yates
SCENEGGIATURA: Steve Kloves
CAST: Daniel Radcliffe, Emma Watson, Rupert Grint
ANNO: 2010

SOSPESI NEL MOOD

Non è solitamente prassi critica (né tantomeno cinefila) chiedersi il motivo per cui un film venga diviso in due parti. Viene istintivo farlo quando ci si rende conto che per una buona percentuale dell’oggetto in questione non succeda praticamente nulla. Perché questa prima parte di Harry Potter si rivela ben presto trottola girante su sé stessa, un film che procede a schema algoritmico ripetitivo, dove il running plot è spesso e volentieri lasciato sullo sfondo di una scia evocata, concentrandosi sull’anthology forse mai così debole e inutile: siamo agli sgoccioli della saga, cuore e mente vogliono solamente focalizzare sul finale e sul come ci arriveremo; invece, David Yates dilata il nulla, trasformando il segmento in una caccia agl’indizi priva di ritmo e di enfasi: è l’espediente stesso del teletrasporto ad affondare il reale senso di pericolo, perché ogni qualvolta subentra il nemico basta tenersi per mano e sparire, andando in un luogo sicuro. Ecco dunque che si rivela la struttura perdente: Harry e i suoi amici che complottano in cerca di risposte, si teletrasportano in un posto, vengono scoperti e i cattivi sono pronti a trucidarli, ma all’ultimo si salvano teletrasportandosi di nuovo via, in mezzo ai boschi aspaziali – e repeat da capo per almeno 3 o 4 volte. Sembra un nastro incastrato, inceppo che impedisce di andare avanti non solo nella storia, ma nel pathos stesso, perché I doni della morte – Parte 1° procede in anti-climax, come fosse forzata diluizione per arrivare alle 2 ore e mezza, quando forse tutto il libro ci sarebbe stato in 3 ore condensate e forti. A rimanere sono flash momentanei di bellezza ed evocazione, inserti perché quasi fuori dalla diegesi: Hermione e il suo incantesimo per cancellarsi dalla mente dei genitori, forse la scena più tragica della pellicola; la reunion dei cattivi, che sembra uscita da un film horror, con tanto di corpo martoriato che lievita in aria come sacrificio macabro; il ballo tra Harry ed Hermione nella tenda, che è più di un tocco di malinconia; la profanazione della tomba, che ci ricorda tramite Albus Silente che I doni della morte è, appunto, innanzitutto un film sulla morte. Morte come sensazione, come cieli oscuri, come squarci nel petto, come sguardi assenti, come messaggi alla radio nella paura di sentire il nome che non vuoi. David Yates insomma, gioca nuovamente d’atmosfera, e sotto questo lato riesce bene. La prima parte de I doni della morte non è un racconto, né tantomeno parte di una storia, casomai è semplicemente un mood, ed è qui la forza ma contemporaneamente anche la debolezza dell’opera. Forse, veniamo solamente preparati a ciò che accadrà nel secondo episodio, e nel farlo siamo immersi nell’atmosfera fino al midollo osseo, fino al soffocamento, come farsi felicemente le valigie per una meta indimenticabile e sentirsi dire dal pilota che causa impossibilità di atterrare, l’aereo girerà su sé stesso per 12 ore in attesa che si liberi la pista. Se tutta la saga di Harry Potter è una buonissima barca di sushi, allora la prima parte de I doni della morte è lo scoprire che la salsa di soia è fottutamente allungata con l’acqua.

Peter Jackson non ci aveva giocati uno scherzetto così crudele nella trilogia dell’anello.

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