THE TOWN di Ben Affleck

REGIA: Ben Affleck
SCENEGGIATURA: Ben Affleck, Aaron Stockard, Peter Craig
CAST: Ben Affleck, Jeremy Renner, Rebecca Hall
ANNO: 2010

VENEZIA 2010: SELF (REMOTE) CONTROL.

Ciò che c’è di vero, fascino d’oscurità cristallina e  materializzazione cinematografica, intorno a Ben Affleck, è tanto forte e nel tempo solida e fondamentale (come proprio si trattasse di edilizia della Persona) quanto falso e manchevole e stucchevole è I’m still here del fratello Casey, come se i due fossero il primoSchwarzenegger e il secondo Danny de Vito ne I gemelli di Ivan Reitman: statuario vs sformato.
Poco più di due anni fa, su queste pagine, un parallelo tra (Ben, senza più considerare Casey da adesso in poi) Affleck e Clint Eastwood: non profezia, ma aria e spoglio necessari nel considerare Gone baby gone e il suo old american spirit. Medesima rastrellata di pensieri per The town, su cui soprassedere per mettere a fuoco il passo compiuto. Nella spocchia critica del trattare i registi più o meno esordienti, soprattutto se dapprima qualcos’altro, come se fossero bambini di un anno o sinistrati in riabilitazione fisioterapica, si parte sempre da una qualche ambizione pregiudizievole, nella sua accezione contraria di miracolo, esaltazione, riscatto altrui in cui immedesimarsi, storia di genialità (un narratore) dallo slum (un fust(in)o pessimo attore (cosa che Affleck non è)).

Affleck va considerato per quello che è: un regista al suo secondo film, senza un iter più paraculo di altri alle spalle, e davanti.
The town è un crime-movie americano e all’americana perfettamente inscritto nel presente, adiacente e connesso e rivitalizzante rispetto l’insieme di canoni costituenti – stilistici, ritmici, tematici – con probabilità visti come necessari nella wave specifica del decennio appena chiuso: una tripla geometricità (e parallela ricerca architettonica come d’animo) è per il puzzle di sentimenti, l’avvicendarsi dei fatti, la ponderosità distesa e segmentata della città; elementi-mattoncino come per dipingerci un cielo di palazzi (che è dell’azzurro-grigio di Boston (città natale) e delle mattonelle d’arenaria di cui è fatta) verso cui imprecare e silenziosamente sperare, contro la castrazione spirituale e per la voglia di fuga (d’amore); professione (perfetta) e desiderio (perfettibile) in antitesi, per un dramma dalla fisica puntualità e dai prodromi disfanti, perché Affleck lavora di pulizia ed assimilazione, tramite (di) avvisaglie varie illustri statunitensi: gli spazi dello Scorsese di The departed (a sua volta influenzato dalla Boston stessa), gli angoli del Nolan de Il cavaliere oscuro (già trasmigrante da Michael Mann), l’esser doppi della Bigelow di Point Break, le catene invisibili del più nuovo Clint Eastwood (toh, rieccolo) imprescindibili per un recupero mentale/associativo/panoramico (senza andare scavare nelle visioni personali dell’Affleck spettatore, che comunque intervistato cita Mad men tra le influenze televisive e un Gomorra tirato fuori dalla bocca) neoclassico, nel ventre del quale il regista si muove per trovare (in un processo che dovrà ancora durare più film) una visione più onnicomprensiva del proprio, dopo il capofitto iniziale nella paranoia budellosa di Gone baby gone e l’essersi dato attoriale, ma già registico, diHollywoodland.

L’inferno è una camicia stretta, un costume da suora. L’amore deve stare sepolto in un giardino. La gente, semplicemente, non vuole (nulla). La città è limpida, luminosa e cieca – e di lei il titolo e tutte le colpe non dette. Esserci: da un’altra parte, fuggire, soli. Affleck attecchisce al consueto quasi secolare, spinge sulla puntualità semplice, senza fastidio/grottesco alcuno, e forse un autocontrollo inaspettato è la cosa che più stupisce: un atteggiamento compassato che punta a non esplodere nemmeno con una pistola puntata alla testa e una al cuore, quasi patriottico, quasi pacifista, quasi nulla, quasi tutto, equilibrio dei dannati.

Una clip dei Griffin qualche anno fa rappresentava un Affleck cazzone universitario come firma solamente aggiunta alla sceneggiatura di Will Hunting – Genio ribelle, come creazione unica di Matt Damon: oggi sarebbe il contrario.

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