OPERAZIONE VALCHIRIA di Bryan Singer

“NON SAREBBE BELLO RIPRENDERE BERLINO/
NON SAREBBE EROICO PRENDERLA SENZA EROI?”

E’ un vero peccato che di Bryan Singer si senta parlare raramente: perché se esiste un cineasta ossessivamente inebriato dal male e dintorni è proprio quello salito agli onori di critica e pubblico grazie al successo de I Soliti Sospetti. Da Public Access in poi il suo percorso di maturazione ha viaggiato di pari passo con un’autoriale presa di coscienza registica, crescita artistica compiuta praticamente in sordina, durante la quale la direttrice principale legata agli esordi, ha ben presto rintracciato la sua  parallela  gemella nell’attrazione verso la personale rilettura dell’immaginario supereroistico. Riveduto e corretto secondo un’ottica outcast ed esautorata. In un momento in cui le produzioni d’oltre oceano sembrano aver trovato la risolutiva gallina dalle uova d’oro nella reiterata messa in produzione dei comicx movie, Singer, che del “filone” è stato vero e proprio precursore, resta ancora oggi l’unico regista, fatta eccezione per l’M. Night Shyamalan di Unbreakable, ad aver concretamente puntato la macchina da presa sulla natura incompresa e a priori rifiutata del non normale. L’analisi narrativo-psicologica di un gruppo (Usual Suspects prima, il dittico X-Men poi) o del singolo individuo (L’Allievo oSuperman Returns), costretto ai margini di un nucleo social collettivo in quanto portatore sano di qualità tanto superiori quanto ghettizzanti, è da sempre zona nevralgica e al tempo stesso punto di partenza e circolare arrivo di ogni sua opera. Poco importa se si tratti di pseudo gangster, sbarbati studenti con la passione per la storia, o estratti dall’universo di Stan Lee e Jack Kirby. La sostanza non cambia, ed anche Operazione Valchiria non rappresenta un eccezione. Lo erano i componenti della “Scuola per giovani dotati”, lo era, quasi provocatoriamente, quel Brandon Routh tornato in un mondo che, come da firma di Lois Lane, “Non ha più bisogno di Superman”. Lo diventa Claus Von Stauffenberg, eroe nazionale tedesco e ultimo di una serie di volti geneticamente riconoscibili a fare il suo ingresso nella rinomata galleria singeriana. All’interno dell’identikit del personaggio interpretato da Tom Cruiseconfluiscono i tratti somatici del Brad Renfro di Apt Pupil in età adulta, uniti alla presa di coscienza di un Magneto ideologicamente redento di fronte alla realizzazione dell’orrore da lui stesso, se non generato, in parte perpetrato. L’ultimo incidente sul campo equivale ad una sorta di segno del destino, fattore detonante che lascia il protagonista mutilato della mano destra (attenzione alla simbologia che di fatto gli impedisce di prodigarsi nel saluto al Fuhrer) e lo priva di un occhio, forzandolo a guardare una sola faccia della medaglia che risponde al nome di realtà. Quella contagiata dal male. Partendo da questi presupposti, quindi, non rappresenta né un errore nè una forzatura inquadrare Claus Von Stauffenberg come un supereroe “convertito” in grado, come Bruce Wayne e Peter Parker, di comprendere i suoi “poteri” solo dopo un evento drammatico e inconsueto. Allo stesso tempo i piani falliti, i complotti orditi e le gesta realizzate a metà della sovversiva P2 in seno al Reich, non possono non diventare materia ideale per la poetica di Singer, alle prese con una pellicola per certi versi definitiva, perchè avvinta attorno al crepuscolo del regime nazista: ultima casta di autoproclamati extra normali che la storia ricordi. Sotto l’impeccabile confezione spy story di Operazione Valchiria si celano, visibili, antinomie amletiche tentennanti tra la sottile ma determinante distanza che separa il servire dal difendere la propria patria (ovverosia la traduzione militare del “ragnatelico” precetto “da un grande potere derivano grandi responsabilità”); Singer, dal canto suo, si conferma ancora una volta profondo conoscitore dei labirinti linguistici e semiologici, decidendo di lasciar decantare rimandi e sottotracce tra le righe di uno stile classico, ideale per esaltare le coordinate retrò della vicenda: tre piedi e carrelli vengono letteralmente cementati al suolo, mentre gli unici momenti di libertà concessi alla macchina da presa consistono in parsimoniosi dolly finalizzati a mostrare l’incombenza e la pesantezza dei vessilli scenografici sulle misere figure umane. L’occhio cinema resta incollato per quasi due ore al servizio di interni e scenografie, pochi fronzoli e tanta sostanza, messa al servizio di una peculiare ricostruzione storica, costumistica ed emozionale. Il resto è affidato alla poliritmica sceneggiatura di Chris McQuarrie(stessa penna de I Soliti Sospetti) e ad un  sapiente dosaggio della suspense che, nel riprendere con successo la lezione hitchcockiana della valigetta con tanto di bomba sotto il tavolo, libera la pellicola dai cavilli di una preparatoria prima parte, riuscendo nella complicata impresa di far trattenere il fiato ad uno spettatore che, a tratti, si sorprende speranzoso di fronte all’eventualità di imbattersi in un astorico finale positivo. Il cerchio si chiude con l’ennesima firma in calce dell’autore: il male, gramigna inestirpabile raffigurata attraverso la provata figura di Adolf Hitler (padre putativo di tutti i Kaiser Sose e Kurt Dussander passati e futuri), non muore mai e ha ancora una volta la meglio. Anche su l’ultimo dei supereroi singeriani.

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