VENEZIA 2011 – Giorno 6: e(r)ro(r)i, pescatori, truffatori

Se l’anno scorso era toccato a Takashi Miike essere Dio per una sera (13 assassini seguito da Zebraman 2), quest’anno le creature viventi sono in mano a Sion Sono, e l’olimpo è un unico grande loft. Tutto il suo cinema è riversato e puntualizzato in Himizu. Come tutta la sua filmografia fosse un unico spazio-avvenimento proposto come collage cubista (con contaminazioni pop) film dopo film. Se nei primi anni zero avevamo le ombre, adesso (ma già con Love Exposure) abbiamo la luce. Ed il corpo-avvenimento trauma-paradiso raccapriccio-storiella non ha mai fine, perchè è di quelli racchiuse in una parola sola e in almeno un miliardo di vite: come «Libertà» è per tutti e ovunque, ed insieme già fantasma o flashfoward di carcassa, o «Amore» ch’è insieme schifoso e meraviglia assoluta, disgustoso ma sempre presente (per le cose, per le persone), qui c’è «Adolescenza», con la sua tendenze opposte al volo e all’oblio.

Ogni adolescenza coincide con la guerra, che sia falsa, che sia vera. Che sia falsa, che sia vera: che sia film.

E non è di semplici “boy meet girl” o di un “io odio i miei genitori e loro odiano me” difficile da gestire: nè semplice, nè banale, nè gestito,Himizu rilascia libera la brutalità e l’esagerazione, è un nuovo Strange Circus senza ritmo predefinito, scaletta o (apparenti) capo e coda.
Sion Sono porta tutto all’eccesso secondo quelli che ormai sono i suoi canoni: la durata dilatata, cento pugni e schiaffi dove per norma sarebbero dieci, il sangue praticamente assente, le urla e gli sbraiti che echeggiano come un rito religioso al contrario, la pioggia che cade come diluvio universale, di pulizia e purificazione dal fango del parricidio, lì dove i colori e i coltelli avevano fallito.
E ci sono borseggiatori coi pantaloni rossi, risse con nazi-punk, yakuza sempre più «Ma come cazzo è vestito?», più silenzi e più bronci, vicine di casa schiavizzate per scelta, forche dipinte di rosso preparate dai genitori, e una conclusione come di una palillogia acida luminosa-quasi-accecante per il suo ottimismo nucleare: non tanto per l’aggiunto riferimento ai fatti di Fukushima, ma per essere l’unico germe disponibile dopo che tutto è stato mandato in pezzi.
Come se il significato subliminale di Noriko’s dinner table fosse venuto alla luce nella sua stessa distruzione, ché era stato sottaciuto fino alla sentenza finale «Addio mia adolescenza» che giungeva come una memoria scomparsa, perso il referente nel degenerare degli eventi. Ora sono più di centoventi minuti di fottiti/aspettami sparsi nell’assurdo e per l’assurdità.
Voler essere un himizu, una talpa. Io voglio una vita tranquilla (la la). E diventare un er(r)o(r)e, un giustiziere. Un fallito. E stare solo. E amare. Un spillo (con la capocchia colorata) conficcato nel cranio per ognuno di questi pensieri contraddittori.

Il Suicide Club, per la seconda volta, è stato raso al suolo. Qua si noleggiano barche e si cresce.


E, francamente, Himizu ci ha mangiato il cervello con tanti morsi, s’è fatto del sushi coi brandelli dei positivisti, s’è portato via tutto il resto, qui ridotto a titoli di telegiornale.

Tinker, tailor, soldier, spy di Tomas Alfredson: la meritata diarrea per chi si era riempito la bocca di sedicenti miracoli riguardo Lasciami entrare, tralasciando quel forse-capolavoro che è il remake made in u.s.a di Matt Reeves.

Terraferma di Emanuale Crialese: se non succedesse a Nuovomondo (di cui contiene molluschi e strascichi e bestialità), potrebbe trattarsi di qualcosa di accettabile (in primis la fotografia, che non ricorda altro che quella di Piranha 3D di Alexandre Aja, tra i recenti-decenti), ma invece è solo la perdita di colpi – nella sua resistenza alla decenza cinematografica – del più grande truffatore del secolo.

Io sono Li di Andrea Segre: film lagunare, tant’è che affiancato a Crialese sembra che in italia siano tutti pescatori… Il film? sì, andate, c’èBattiston che fa il tamarro… No: Segre esordisce bene, sa scrivere e muoversi secondo tutte le mosse salva-budget del cinema odierno; il grande problema è che si pone uno scopo trobbo basso da raggiungere, e ce la fa completamente.

In Aronofsky we trust.

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