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Verboten! The long goodbye (weekend): LABOR DAY di Jason Reitman

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REGIA: Jason Reitman
SCENEGGIATURA: Jason Reitman
CAST: Josh Brolin, Kate Winslet, Gattlin Griffith
NAZIONALITÀ: USA
ANNO: 2013

Regista dal profilo ormai riconoscibile, Jason Reitman si è guadagnato crescente reputazione e meritata considerazione critica circondando i suoi personaggi di dolce amarezza, attraversata da una morale cinica di scuola wilderiana. Esiste un modo di fare cinema alla Reitman: attitudine giovane eppure matura, già consolidata, che lo avvicinerebbe e non poco al Cameron Crowe delle migliori occasioni se quest’ultimo si dimostrasse meno romantico e più mordace. Tuttavia, dallo stereotipo benigno del già visto Labor Day prende le distanze, dichiarandosi, se paragonato ai suoi predecessori,  sorprendentemente alieno e figlio unico.

L’ultimo Reitman come l’esordiente Ben Affleck, scrive e dirige un film che guarda al Clint Eastwood d’annata individuando come principali modelli d’ispirazione I ponti di Madison County e Un mondo perfetto, facendo affidamento sulla maschera vissuta e sconfitta di Josh Brolin: che dalla riconoscibilità caratteriale dei personaggi reitmaniani per primo si divincola, al fine di mettersi in coda all’ingresso della galleria eastwoodiana; ribadendo ancora una volta quanto senza lo spessore dei suoi interpreti il cinema del canadese non avrebbe motivo di esistere e, al tempo stesso, come Labor Day meriti coccole critiche anche e sopratutto per il suo dimostrarsi imprevedibile rispetto al passato filmografico tutto di Jason Reitman.

In Labor Day non vi è traccia alcuna di sindromi o tic familiari: tanto sul versante maschile quanto sulla sponda femminile. Vale per Brolin lo conferma Kate Winslet. Cercateli pure gli eredi dei vari  Aaron Eckhart, George Clooney, Vera Farmiga o Charlize Theron. Fatica sprecata, non li troverete. Questo Reitman è un oggetto inedito sia sul versante attoriale quanto nell’approccio stilistico, quasi fosse pensato da un cineasta scopertosi all’improvviso ambidestro; e se l’impianto psicologico cede progressivamente alla malinconia sognante e utopica, sulla fantasia della quale si chiudeva La venticinquesima ora (il viaggio, la fuga, il progetto di una nuova vita), ecco la regia liberarsi di qualunque tentazione indie/USA preferendole un metodo decisamente più tradizionale, semplice e familiare come il contesto che incornicia, filtrando le immagini attraverso una fotografia calda come un fine settimana al tramonto di un’estate. 

Il canovaccio che un qualunque mestierante invaghito delle abusate pose di quinta stile Sundance avrebbe trasformato in un’innocua variante sull’asse Ore Disperate/Sindrome di Stoccolma, viene invece arrangiato da Reitman sfruttando la ritmicità classica del racconto americano: le cui regole prevedono che la redenzione o l’improvvisa possibilità di rifarsi una vita, qualunque e tranquilla, passino attraverso il rispetto di gesti semplici e quotidiani; quali crostate di pesca fatte in casa, fondamentali di baseball impartiti in giardino, passi di danza suonati da un giradischi e preziosi lavoretti di manutenzione domestica.

Il completo indossato da Reitman è nuovo di zecca ma ne esalta ugualmente le qualità di storyteller in possesso di un talento innato per scrittura e dialoghi: ora a suo agio con accenti rievocativi, quasi kinghiano nel momento in cui permette al nastro del flashback di riavvolgersi liberando echi tragici colorati di tardi anni cinquanta, che non sfigurerebbero se paragonati alle atmosfere di Stagioni diverse. Ferito, abbandonato e infine catartico, Labor Day segna con tutta probabilità l’inizio di una svolta, il principio di un nuovo ciclo autoriale, che volutamente rinuncia alla sottrazione di Young Adult – fino a raddoppiare o addirittura triplicare gli interpreti sulla scena (ognuno con un preciso compito storico destinato a sviscerare passato e futuro del proprio personaggio) – e rinnega la corazza di solitudine costruita durante Tra le nuvole.

Questo Jason Reitman è un regista diverso, ormai consapevole di essere tra i pochi e credibili cineasti capaci di spogliare vita e relazioni da ogni cliché: così da renderle vulnerabili e indifese ad ogni cinico e disincantato attacco, mette la stessa abilità al servizio di un’altra tipologia di interpreti e registri emotivi; per rivestirli a loro volta di profonda e speranzosa semplicità. C’è dell’altro insomma di cui valga la pena raccontare. Altri che non siano avvocati lobbisti, tagliatori di teste aziendali o scrittrici traumatizzate e immature sull’orlo di una crisi di nervi meritevoli di una storia come si deve.

E fare centro firmando un film sincero e genuino come Labor Day è impresa ben più ardua e rischiosa, se confrontata alle scorciatoie per il successo intraprese ai tempi del catchy e radical chic Juno.

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