in sala (venezia 2013)

Per gentile concessione di National Geographic: TRACKS – ATTRAVERSO IL DESERTO di John Curran

tracks

REGIA: John Curran
SCENEGGIATURA:  Marion Nelson
CAST: Mia Wasikowska, Adam Driver, Melanie Zanetti, Emma Booth, Jessica Tovey
ANNO: 2013

Tracks comincia con un’ombra che graffia il terreno assolato: poi, un vestito che soffia nell’aria dorata, qualche passo titubante, una mano che s’irrigidisce. È quella di una bambina che trattiene il respiro e il dolore, che dice addio a qualcuno di caro. Svariati anni dopo, tale bambina diventa Mia Wasikowska – alias Robyn Davidson –, stolida e pugnace lupa solitaria che s’imbarca in un’impresa titanica, quasi disumana, teoricamente impossibile e conseguentemente cinematografica: 3000 chilometri da percorrere soltanto lei, il fidato cane e quattro cammelli, attraverso un deserto aspro e una scarna pellicola biografica (che scarna e asciutta lo sarebbe stata di più e meglio senza il didascalismo appiccicaticcio della voce narrante, che fortunatamente va scemando man mano).

Dell’audace e schiva Robyn ci giungono radi brandelli di vita e carattere, e soprattutto, forse per timore di scivolare nel racconto didattico, debolmente emergono le sue motivazioni, la spinta, il desiderio scatenante: veniamo a conoscenza di un’idea (che “una persona qualunque può fare qualunque cosa”), di un’ideale paterno e di un trauma materno che ne segna il male di vivere, di una evidente asocialità e di una latente misantropia, della quale fa le spese soprattutto e ripetutamente il fotografo – echi ironici di Gorilla nella nebbia? – Rick (trattasi del prezzemolino Adam Driver, lanciato dalla bella serie tv Girls, già spuntato in A proposito di Davis, Frances Ha e Lincoln, e che presto ci ritroveremo nei nuovi lavori di Jeff Nichols, Noah Baumbach, Saverio Costanzo (!), Scorsese e persino nel futuro Star Wars VII).

Da accantonare immantinente i paragoni con Into the Wild: oltre a trattarsi di personaggi diametralmente opposti (Christopher McCandless si taglia letteralmente fuori dalla società, rigettandola, per riedificare il suo rapporto col mondo e con gli altri, ripartendo dalla natura), laddove Penn allagava l’immagine con lirismo dolente, ferito, aggressivo e malinconico, qui Curran sgonfia la narrazione accontentandosi di una manciata di etnografia, di incongrui inserti chiaramente romanzati, del braccare la protagonista senza sprofondarvici, con sguardo impersonale e senza scossoni, descrivendo una storia in cui gli unici sommovimenti – dati dalla perdita da parte di Robyn dei cammelli, della bussola, del cane – sono del tutto privi di qualsivoglia pathos o tensione, e persino il momento di crisi della ragazza si appiattisce in un mero spaesamento passeggero.

Fino alla fine Curran non riesce a sollevare nemmeno di un lembo Il velo dipinto che aleggia sulla figura di Robyn, impenetrabile a se stessa almeno quanto a noi mentre marcia nella sua missione senza essere in cerca di gloria o di soldi (ma ne ha bisogno, e per questo il viaggio – e pare pure il film – viene suo malgrado dipinto e documentato da National Geographic), né tenta di dimostrare qualcosa a qualcuno; respingente e contorta, pare un uccellino in gabbia e in fuga, trova pace nell’empatia con gli animali e approcciandosi a indigeni a cui è legata dall’incomunicabilità linguistica, ma rimane distante da qualunque reale contatto umano intra ed extra filmico, finendo per essere, dopo quasi due ore di traversata solipsistica, personaggio impalpabile, sfuggente a se stessa e a un’identità che forse vuole soltanto proteggere, da cui è forse ostinata a sottrarsi e liberarsi.

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