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VENEZIA 2014: Bird is the word (Venezia non affonda mai del tutto)

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Una scalata rovesciata, un cinema vario, anche se non come quello a cui Muller ci aveva abituati (e di cui Barbera ha raccolto prima gli strascichi, per poi ripulirlo, per raddrizzarlo). Un Cinema dalle tante tremende voci che si affastellano tra le visioni, nella variazione repentina, nel tentativo di dare film differenti. Ma le intenzioni della policromia mordono alla pancia, se non c’è la materia prima: abbiamo i nomi, abbiamo gli autori, ma quel che manca è una direzione collettiva che porti in avanti. Il Cinema, a Venezia, nel 2014, sembra muoversi orizzontalmente, esplorando le tecniche e gli avanzi di più di un decennio di narrazioni, scrutando gli angoli.

A vincere, Il piccione di Roy Andersson, a non vincere il Birdman di Alejandro González Iñárritu: due riflessioni sull’esistenza solo apparentemente opposte. Entrambe macinano la tecnica (il primo quella propria del suo autore, il secondo tramite le possibilità offerte dal sistema americano), la gonfiano, riempiono ogni singolo frammento di spudorata precisione. Ed entrambi finiscono col risultare, tra le altre cose, meccanici, uccelli tecnologici visceralmente votati a questa raffinazione, a questo portento miscelante che riesce a spremere appunto tutti i fattori della macchina e della macchinazione (non c’è niente di più calcolato di un piano sequenza infinito, non c’è niente di più calcolato di un tableau vivant) per fare narrazione, per rinverdire un linguaggio e per salvarlo dal qualunquismo, ridandogli la carica connotativa che nelle mille fila dell’audivisivo abbonda e perde di significato: da soli, un piano sequenza sinuoso o un’inquadratura fissa, non possono essere che un appunto, una dedica, un suggerimento, e l’unica soluzione sembra dilatarli fino ad essere il solo testo disponibile, fino a non lasciare scampo a chi guarda. Tecnica-tecnologia brutale che ha la necessità di porre davanti a tutto la finzione, per evitare di essere dimenticata, di essere scambiata o confusa con altro. Entrambi visioni obbligate, forse da ripetersi nel tempo, per ricordarsi qualcosa del Cinema.

Il Gran Premio della Giuria, The Look of Silence di Joshua Oppenheimer, fa l’opposto e, con le dovute proporzioni, ricorda il Sacro GRA di Rosi: volendo raccontare la realtà col posticcio, facendo risaltare il montaggio, la semplicità dei sentimenti, pecca contro il documentario stesso. Potrebbe avvolgere, ma il confine tra “vero” e “ricostruito” ci sta indosso come con delle infami lame nascoste, degli allarmi che ci rendono malfidati, in odore di mancata sincerità. Vorrei abbandonarci a quei sentimenti, ma il continuo cambiare della loro apparente provenienza ci blocca al semplice guardare.

Shinya Tsukamoto con Fires on the Plain (Nobi) ci ricorda invece qualcosa di ancora più lontano nel tempo. Pesa forse la carenza tecnica, così come pesa l’articolazione del plot (minimale, ma sempre 2in più rispetto al dovuto, all’usato quasi da sempre dall’autore), ma il suo Cinema rimane intatto, è capace di non dimenticarsi, di sapersi incastrato in un sentimento innato, in un’angoscia lurida e splatter che da Tetsuo arriva fino a qui. Tsukamoto, un inchino, anche se non è Kotoko, anche se applicato ed impiccato.

E Saverio Costanzo ha la fortuna di avere con sé un attor-cosa-entità senza paragoni come Adam Driver. Hungry Hearts è un film che totalmente se ne frega. Adattamento a memoria di un romanzo, adattamento agli spazi angusti della ripresa (Costanzo è anche operatore). Un piglio crepuscolare, semiamatoriale; molto più che con La solitudine dei numeri primi. Un incapsulamento nell’orrore non dichiarato dello spazio familiare, sì, ma in primis la necessità dell’abnegazione, del tormento fisico, nell’inappetenza del corpo e dell’anima. Costanzo istintivo e forse troppo poco costruito, un gusto per il buio-mai-del-tutto, per la luce pallida che desideri e speranze non tiene minimamente in considerazione, non negandone l’esistenza, ma sottolineandone l’inaccessibilità. Altrimenti: depressione, quella sdentata e difettosa, chiusa rispetto a tutto, come status primario dell’esserci. L’amore si consuma in una sola inquadratura, in un patrimonio low budget.: i cuori affamati del titolo poco possono, la sazietà non esiste. E l’appunto è che forse Costanzo lo dà per ovvio.

Così come dà per ovvio molto di Pasolini, Abel Ferrara, che col suo film si concentra sul particolare, sulla notte definitiva ed imminente, sul cibarsi di avanzi (testimonianze, lingue che si mischiano, esilità di mezzi), esplosivo da sembrare riduttivo, o viceversa. Amore/odio. Disgusto/incanto. Dalle idee troppo lucide, da contenere l’abbaglio della figura che racconta e, necessariamente, stringerlo nelle inquadrature, nello stile. Porta allo sforzo, in un modo ubriaco che può essere detestabile.

Venezia non affonda, galleggia.

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