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Venezia 2016: Uppers – I migliori film in concorso

Le migliori esalazioni di una Venezia dimenticabile

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Une vie  di Stéphane Brizé (Francia, Belgio) - ♥♥♥(♥)

Fortunatamente la seconda ora di sonno veneziana non è stata fatta per la proiezione di Brizé, grazioso melodramma chiaroscurale e affrescale, dipinto a luci tenue e ricordante i pastello impressionisti e i suoi tocchi docili. Chiuso ermeticamente ma non claustrofobico, il dramma preso paro paro dal romanzo di Maupassant, intriso di una melanconia (sì, proprio in senso psichiatrico) viscerale che per tutta l’opera s’impunta a non lasciar filtrare ossigeno, così decapitando la protagonista tra castrazioni, tradimenti, solitudine e debolezza fisica. Non si può parlare di tocco a là Brizé solo per non riportare alla mente che la formula la si spendeva per uno come Lubitsch, ma il cineasta francese gira in maniera personale, forse non del tutto autografica, ma dagli intenti espressivi dichiarati e fedeli a sé stessi, dalla prima all’ultima inquadratura, con compattezza di scrittura e sobrietà visiva che, tra le grida caciarone dei finti-esteti e gli integralismi del cinema rigoroso, pare una rigenerante bibita senza edulcorante. Se non ci si addormenta prima. (LDV)

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El ciudadano ilustre di Mariano  Cohn e Gastón Duprat (Argentina, Spagna) - ♥♥♥(♥)

I due registi argentini, già autori de El hombre de al lado, continuano a spingere su quel determinato tipo di satira che oscilla tra l’immobile (la calma) e la turbolenza della critica sociale; ciò non gradualmente, ma facendo continuamente convivere in scena, grazie al loro stile asciutto e piacevolmente telegiornalistico. Un premio Nobel torna alla sua cittadina d’origine dopo decenni: basteno queste poche parole per prefigurarsi il tipo di cinismo messo in pratica. Con estrema ragione, Cohn e Duprat, ne hanno per entrambi i versanti: intellettuale nevrastenico e paesani grotteschi ne escono slavati e denudati, con un equilibrio ed un rigore realizzativi talvolta troppo cerebrali e calibrati, facendo sconfinare serietà e ricerca di risate. Ed il tutto funziona, ma mai in crescendo, lasciando un qualcosa di sintetico in bocca, di incompleto e distante. (AT)

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 Spira Mirabilis  di Massimo d’Anolfi e Martina Parenti (Italia, Svizzera) - ♥♥♥(♥)

Un documentario, un’installazione, una sperimentazione visiva, questa la facciata dell’ultimo progetto della coppia di registi italiani, giunti a  quest’edizione veneziana che di titoli italiani fa vergogna dietro a uno stelo d’erba troppo sottile. Ma al di sotto della confezione di prodotto criptico, ermetico, quasi autistico (o che dell’autismo fa venir voglia), giace, temiamo – temiamo per noi che non siamo del tutto in grado di coglierne eventuali sottopoetiche e rimandi colti– un’idea quasi new age di esistenza, di eterno ritorno biologico, di distruzione e trasformazione di tutte le cose, tra l’artigianalità dell’atto umano e la naturalezza del ciclo micro cellulare intento a mutare, a dar della vita. Guardiamo dal microscopio di una finestra visiva spigolosa, respingente, che non ha paura di presentarsi antipatica per la decisa evirazione di didascalie servizievoli, per uno spettatore che, talvolta, non necessita che il cibo gli si porti alla bocca. L’effetto è quello di stare sott’acqua, tra apnea e ristorazione ariosa, di crollare in uno stato di trance piacevole e (speriamo) essenzialmente desiderato: cromatismi teneri, grana grossa, editing del suono la cui cura nel dettaglio assume canoni concettuali, come ogni elemento di questo visual dell’imperituro. L’accorciatura del minutaggio gli avrebbe senz’altro giovato, ma esultiamo, pur nel suo carattere identificativo ricacciante, accogliendo una forma non nuova, ma differente da quel che ci si abitua a vedere. (LDV)

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 The woman who left  di Lav Diaz (Filippine) - ♥♥♥♥+

Il Diaz misurato (tre ore e tre quarti è la durata), narrativo (perché infine di revenge movie si tratta) e talvolta dinamico (a volte degli stacchi di montaggio spezzano la scena) ci piace. E il Leone d’Oro (inaspettato, ad ogni modo) sembra tutto basato sul film (anche perché dubitiamo che i più della giuria fossero “a conoscenza di”). Finalmente Lav può gareggiare e manda a casa tutti. Le idee orfanelle degli statunitensi (d’adozione e non), il grottesco dei sudamericani, il pathos francese, le cosette di casa nostra: tutto diventa superfluo e quasi piagnucoloso, in confronto all’uomo con la macchina da presa, al cecchino che attende ore la sua vittima, immobile, e fa un centro perfetto, in mezzo alla fronte. Con The woman who left ogni elemento cinematografico ci viene ridato, riscritto e riscattato, nell’apparente minimalismo che porta al complicatissimo essenziale. Tempi, testo (noir), sottotesto (sociale) uniti a creare concetti e sensazioni, voragini immobili in cui perdersi, scavare o semplicemente lasciarsi trascinare. Lav Diaz ri-plasma il tempo, ridona vigore allo spazio (quello delle inquadrature fisse che non siano “ehi, guardami, non mi muovo” ma calamite autosufficienti e autorigeneranti), facendoci ondeggiare nell’infinita digressione capace di annullare e sospendere il canonico narrare per riempirci di avvolgente malinconia, nel concetto estetico dai silenziosi ed inesauribili richiami. Ancora una volta con la forza e le palle di chi riesce a tenere la camera ferma e “alla giusta distanza” (dai corpi come dalle speculazioni), Diaz fa vacillare le nostre certezze formali e non: davanti a lui tutto il resto non esiste; ci siamo i suoi personaggi, noi e il suo B/N, mentre tutto il resto è solo fastidioso rumore. (AT)

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