L’UOMO CON I PUGNI DI FERRO di RZA

REGIA: RZA
SCENEGGIATURA: RZA, Eli Roth
CAST: RZA, Rick Yune, Russell Crowe, Lucy Liu, Dave Batista, Jamie Chung, Cung Le, Gordon Liu, Pam Grier
NAZIONALITÀ: USA

ANNO: 2012
USCITA: 9 Maggio 2013

UN BALLETTO GODERECCIO MA STERILE

L’uomo con i pugni di ferro più che un film è, per lo meno nelle intenzioni, un gigantesco ipertesto. Per il suo esordio alla regia RZA, comandante in capo dei Wu-Tang Chan, sceglie infatti una mistura sfrenata di action orientale e sensibilità occidentale: mescola i due aspetti, prova a sovrapporli, ma nonostante il tentativo di shakeraggio le due diverse scuole rimangono tenacemente scollate l’una dall’altra e il sincretismo non arriva mai davvero a concretarsi. Non basta insomma porre in calce quel “Quentin Tarantino presenta” per assicurare una rimodulazione organica dei modelli di partenza, cosa che il proverbiale cineasta alla base della folata modaiola del pulp e del post-moderno ha mirabilmente portato a compimento nella sua poetica e in particolar modo nel suo Kill Bill: dittico che era summa massima dell’incrocio tra Est e Ovest e in cui lo stesso RZA aveva preso parte alla colonna sonora, assorbendo evidentemente anche buona parte del fascino magmatico che quel set emanava.

Per uno con le sue passioni e il suo background, era in fondo difficile immaginarsi un’opera prima che fosse operazione dal diverso spirito, che non aspirasse a muoversi nella scia abusata di un certo tipo di immaginario avant-pop fatto di commistioni e già di suo abbastanza logoro. Parliamo infatti di un artista in cui l’hip hop ha sempre assunto dei connotati decisamente spuri, aperti alle contaminazioni e agli influssi più disparati. Purtroppo, però, il suo primo film non è all’altezza della riflessione sulle forme alla base del suo eccellente progetto musicale: ciò che vi grava addosso è anzitutto un’estetica derivativa e priva di spunti originali, che si siede sull’ennesima riproposizione tarantinata di percorsi già battuti fino allo sfinimento. Il tentativo di far rivivere l’action del cinema di Hong Kong degli anni ’70 si scontra con la palude conformista di elementi sterili elargiti a profusione e la generosità registica e visiva di RZA, nonostante la buona volontà, non sembra infatti mai davvero in grado di donare una compattezza interna all’accozzaglia furibonda di elementi che vengono giustapposti uno accanto all’altro col più forsennato dei furori grossolani. Passi il divertissement tamarro, le vena divertita e caciarona, il voler godersi fino in fondo un caleidoscopio alimentare e becero di battaglie, kung-fu e scazzottate. Però è l’insieme del mix, imbastito con un’ampia dose di buffoneria ammiccante, a non riuscire mai a travalicare la dimensione videoludica e videoclippara per attingere dal vero cinema e raggiungere una parvenza di compattezza organica della messa in scena. L’uomo con i pugni di ferro resta un ballata rap and roll esile e malmessa, sconquassata dalla sua stessa fame becera e incontrollata di guasconeria a ripetizione. A tratti sembra quasi di avere davanti la parodia di Hero o di un brutto wuxiapian di Zhang Yimou (categoria assai rara), gretta e pretestuosa. E non aiuta, va detto, il gigantismo fin troppo narcisista e compiaciuto del comparto autoriale, un vezzo che finisce con l’essere una colossale zappa sui piedi: al di là del malsano contributo a una sceneggiatura quasi inesistente da parte di Eli Roth, uno dei più inutili esemplari della factory tarantiniana, basti pensare soltanto che RZA aveva in mente una versione integrale di ben quattro ore da suddividere in due capitoli diversi. Dato che già la prima parte è risultata sovrabbondante in ogni suo aspetto, non resta che rallegrarsi della decisione produttiva più sensata che ha finito fortunatamente col prevalere, relegando la volontà di RZA a una versione più lunga per il mercato americano con circa dodici minuti in più.

Nel finale il calligrafismo cocciutamente già visto raggiunge poi vette ancor meno tollerabili: il senso della misura si travalica e l’intasamento del film sfiora il parossismo, tra citazioni davvero eccessive e pochissima sostanza. L’equilibrio, d’altronde, mancava già nella scelta delle singole parti: impensabile relegare così ai margini un personaggio godurioso come il mercenario Jack Knife di Russell Crowe, circondato da un harem di donnine compiacenti e interpretato dall’attore australiano con fin troppa ma non per questo men gustosa gigioneria. Ma non meno allibiti lascia la scelta autocompiaciuta del regista di mettersi in campo anche come protagonista nei panni del fabbro Blacksmith: RZA è inespressivo a tal punto che il suo personaggio finisce per scantonare, in maniera non si sa fino a che punto voluta, nell’anonimato del peggior caratterista. In quel di Jungle Village, dove impera la fuffa, resta di buono soltanto la straordinaria soundtrack e l’indiavolata vena musicofila del film, a riprova di quanto il passaggio del buon leader del Wu-Tang Clan dietro la macchina da presa sia stato a dir poco tirato per i capelli e non supportato da un’adeguata consapevolezza del mezzo che si andava a maneggiare.

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