DOPPIO GIOCO di James Marsh

REGIA: James Marsh
SCENEGGIATURA: Tom Bradby
CAST: Clive Owen, Andrea Riseborough, Gillian Anderson, Aidan Gillen
NAZIONALITÀ: UK, Irlanda
ANNO: 2012

La pace è garantita ad un uomo pronto alla guerra
Proverbio gaelico

LE SPIE NON DEVONO AMARE

Si travesta da documentario o si mostri in forma (di) fiction, il cinema di James Marsh resta vincolato ad un immaginario decisamente immobile, che rintraccia nel passato e nella cronaca della storia le sue attrattive. Regista pressoché unico nel panorama britannico, in quanto privo dell’animo sovversivo di un Danny Boyle, antitetico ai virtuosismi di Guy Ritchie e dall’approccio meno “stradaiolo” di un Ken Loach o di uno Shane Meadows: Marsh si lascia immaginare come un topo da biblioteca prestato alla settima arte, quasi fosse un abituale frequentatore della sezione emeroteca; appassionato dei vecchi ritagli di giornale con una naturale propensione visiva verso il vintage, attratto da quei codici che del tempo e della ricostruzione di esso attraverso gli eventi ne hanno fatto radice e principale sostentamento narrativo: il poliziesco del precedente Red Riding 1980 (secondo dei tre tasselli televisivi adattati dalla quadrilogia noir di David Peace) o lo spionaggio di Shadow Dancer. Operazioni si di genere, ciò nonostante filtrate da un animo teso a travalicare le coordinate dei filoni frequentati, attraversati come passaggi a livello che dal contenitore conduco al contenuto: la condizione esistenziale dei personaggi che li abitano. 

Marsh si prende cura dei suoi protagonisti, li predilige a tal punto da conferirgli centralità emotiva rispetto agli eventi di cronaca ai quali si ispira. Lo squartatore dello Yorkshire o le faide intestine all’IRA non sono certo meri pretesti, piuttosto spunti narrativi adatt(at)i ad un cinema che, quando si fa finzione, trova la sua naturale realizzazione nella solitudine psicologica di chi affolla l’obiettivo. Il detective Paddy Considine come la madre terrorista Andrea Riseborough: volti scavati da un destino infame, ingranaggi in un meccanismo decisamente più grande di loro ma che vale la pena centralizzare e analizzare; non fosse per quell’irresistibile fascino che spontaneo trasmettono, monadi con le spalle al muro, ricurve sotto il peso delle responsabilità che non hanno scelto, ma solo accettato.

Shadow Dancer è melodramma camuffato da spy movie dove non sono i meccanismi o gli archetipi a coniugare l’effetto nostalgia: il Marsh regista non è interessato al congegno di genere, bensì alla metafora di vita che questo è in grado di offrirgli. Poliziesco o spionaggio che sia, se interesse esiste è nei confronti delle pedine mosse dal gioco, qui come in Red Riding 1980 intrappolate in una dimensione che non contempla via di fuga; la condizione esistenziale ideale per inscenare una “guerra fredda” tra esseri vulnerabili, separati da “cortine di ferro” rinforzate da secolari e ideologici livelli di separazione, pronte però ad essere attraversate quando la posta in palio si fa alta, più nobile della “causa”. Questo mentre il prodigio retrò si manifesta attraverso caratteristiche squisitamente stilistiche, merito di una regia asciutta, priva di fronzoli appariscenti e di una fotografia capace di ricreare l’effetto ricercato senza bisogno di ricorrere a nessuna scorciatoia scenografica, illuminando gli anni ’90 come ci si trovasse nei primi ’70; dando vita ad un limbo temporale che dal piovoso nord dell’Inghilterra romanzato da David Peace (con)giunge all’Irlanda dinamitarda raccontata da Tom Bradby

La virtù di Shadow Dancer è quella di farsi universale attraverso la sottrazione, merito dell’acume di Marsh e della dedizione tramite la quale tratteggia il cuore dei suoi personaggi. Così da evitare la trappola autoreferenziale della semplice cronaca, primo passo di una provincializzazione certa che al racconto Shadow Dancer non solo non è concessa, ma addirittura estirpata alla radice. Più dell’IRA, degli attentati, delle esecuzioni, delle bombe o dei borsoni da ginnastica che le contengono premono gli uomini, che a monte pianificano o tentano di boicottare tali gesta; Clive Owen e Andrea Riseborough: cacciatore e preda, funzionario e spia, uomo dello stato e madre soldatessa, anime in pena incapaci di assicurare un futuro concreto al sentimento che spontaneo vorrebbe legarli, un attimo prima del finale che tutto rivolta e stravolge. Mescolando per l’ultima, drammatica volta le carte in tavola. 

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