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Cannes in cans pt.2: Loach, Schrader, Djaïdani

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Siamo riusciti a vedere qualcosa grazie alla rassegna milanese (metodo, a quanto pare, più fruttifero del fare le code interminabili in Costa Azzurra), regalandoci la grande truffa di Loach, lo stand-by di Dolan, il portento di Larraín e non solo.

TOUR DE FRANCE di Rachid Djaïdani

Se in Italia abbiamo Zeta a narrare di hip hop con una tardo-addormentata parabola di successo/insuccesso/riscoperta-dei-valori-più-semplici, in Francia, dove la situazione musicale è già ben inquadrata da almeno un ventennio, il regista semiesordiente Rachid Djaïdani muove sì dal rap, ma per confezionare il più classico dei road movie. Gérard Depardieu fa il vecchio burbero dal nobile intento e Sadek il rapper in bilico tra fama e strada, le coste francesi il resto: passato e presente, rancore e voglia di rinnovarsi si incrociano e si scuotono fino all’impressione generale/generalista finale del traguardo raggiunto. Un palco, un ricongiungimento, una missione, più missioni. Scritto in modo puntuale e purtroppo diretto allo stesso modo, Tour de France si lascia abbandonare presto, nel preciso istante in cui sfodera la sua natura più canonica, che attinge a basi solide senza creparne un singolo lato.

 

DOG EAT DOG di Paul Schrader

Paul Schrader ha comprato un nuovo gioco da tavolo, ne ha letto per bene le istruzioni ed ha chiamato un tot di amici per giocare con lui, in un pomeriggio all’insegna della spensieratezza e del tutto drug-free. Le regole le danno Max Bunker con il suo romanzo e circa due decenni di cinema di genere americaneggiante. Lezioni fluo/pop/postmoderne/postmortem di calibrazioni allucinate manualistiche, dove il limone di un vecchio Oliver Stone o del vecchio (recente) Friedkin è qui per condire il pesce. Il trip e il pessimismo di Dog eat dog seguono i binari saldi di un tram senza sobbalzi, tramutando un iniziale exploit ludico in una galeria di effetti/infetti/affetti già collaudata altrove e qui messa sul tabellone, tra probabilità e tirare di dadi mai truccati. Vincerebbe il piacere visivo, se questo non finisse subordinato ad un sconfortante inutilizzo nel racconto, mai abbastanza intero, mai abbastanza squartato o semplicemente squadrato.

 

IO, DANIEL BLAKE di Ken Loach

A pensar male, spesso ci si azzecca. Almeno in parte. Se puzzava di dteriore sguardo la scelta di George Miller di premiare Ken Loach, a visione avvenuta scopriamo che l’olezzo va diviso equamente tra confezione (l’idea del Prix) e prodotto. Cosa ci si poteva aspettare da Loach? Niente, e difatti niente abbiamo rispetto un attendere. Sarebbe facile dire che il suo è un cinema vecchio, o che il suo è un cinema di contenuti e blabla e tutti i luoghi comuni refrattari sul regista. Preferiamo dire che il suo è un cinema approssimativo, una visione offuscata dall’ideale novecentesco, capace solo in parte di adattarsi alla realtà e all’attuale, capace di forzare personaggi e avvenimenti al suo volere per imporre una visione piana e del tutto funzionale al veicolare di un messaggio. Di Io, Daniel Blake la regia è il minore dei mali, anzi: va riconosciuto a Loach il saper sottendere l’idea che qualcosa possa evolversi per tutta la durata del film. Nonostante abbiamo una sceneggiatura colabrodo e farne le spese sono i personaggi. Il Daniel Blake del titolo è una contraddizione ambulante, un signore che vive nel passato e che d’un tratto sa tutto; che non vuole piegarsi al sistema ma che d’improvviso ne sa più di quest’ultimo. Loach piega alla commiserazione troppi elementi per risultare sincero, raccatta il male che gli serve e fa finta di niente davanti al bene (propinandoci, nel 2016, attacchi di fame blu e siparietti informatici fermi a dieci anni fa) dandoci una pellicola monca e disonesta, rivolta ad una tipologia di pubblico ben precisa ed incapace di raccontare, buona solo per imporre e rimarcare determinate mancanze o limiti del welfare.

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