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Connection timed out: DISCONNECT di Henry Alex Rubin

disconnect (2)

REGIA: Henry Alex Rubin
SCENEGGIATURA: Andrew Stern
CAST: Jason Bateman, Frank Grillo, Hope Davis, Alexander Skarsgård, Paula Patton
NAZIONALITÀ: USA
ANNO: 2012 

E’ dalla fine degli anni ’60 che si parla di realtà virtuale: fino agli anni ’80, come lontano mito futuristico (un po’ come le città nello spazio e le automobili-razzo che guardavamo da bambini nel cartoon I Pronipoti, immaginando che un giorno la vita sarebbe stata davvero così’), che consiste in una realtà simulata al computer in cui l’individuo si immerge, collegato alla mente-macchina da marionettistici cavi. Film come Tron (1981) e più tardi Il tagliaerbe (1992), iniziarono a rendere una prima idea di questo concetto ancora così lontano dal pensiero comune. Negli ultimi anni la percezione del termine è drasticamente cambiata, con la diffusione capillare dell’utilizzo del Web ma in primis dei social networks, Facebook su tutti: la creatura di Mark Zuckerberg, nata nel 2004 dunque esattamente un decennio fa, più di ogni altra piattaforma già esistente, da MySpace agli online messengers come Msn, ha finito per creare letteralmente una realtà parallela in quanto “altra”, un gigantesco alter ego collettivo, contraddittorio nell’esigere i dati personali reali (in quanto nato come rete di comunicazione all’interno di un campus), per poi gonfiarsi di una moltitudine di accounts finti, identità rubate, foto fasulle, tutto il fake possibile e immaginabile. Gli smartphones e i tablets hanno reso tutto ciò semplicemente più agevole da maneggiare ossia portatile: in ogni momento e dovunque, ci si astrae dal reale per mandare un messaggio, un poke, controllare un mi piace. Queste sono, ovviamente, banali e trite riflessioni che fungono soltanto da spunto per il bellissimo e intenso Disconnect (presentato al Festival di Venezia nel 2012), esordio al lungometraggio del regista Henry Alex Rubin, già candidato agli Oscar nel 2006 per il documentario Murderball, e aiuto regista di James Mangold in Copland (1997) e Ragazze Interrotte (1999). I maestri di Rubin sono palesi: dal Paul Thomas Anderson di Magnolia a tutto il cinema corale di Robert Altman, il cineasta rielabora il concetto di affresco filmico, intrecciando tre storie apparentemente distanti tra loro, in realtà unite da comuni denominatori che si riuniscono all’apice del dramma.

Un prank (scherzo) con un finto profilo su Facebook porterà a tragiche conseguenze, una coppia in crisi è vittima di una frode informatica e finisce sul lastrico poiché la macchina della giustizia è lenta, e una reporter di una piccola tv locale ottiene il salto di carriera col caso di un giovane toyboy che si offre via webcam. Rubin è abile nell’evitare la trappola dei facili moralismi o patetismi a buon mercato, pur toccando tematiche rischiose come i pericoli che i minorenni corrono online, il furto d’identità, e lo sfruttamento di minori a scopi sessuali: si assiste a un film di ampio respiro, un panorama umano di cui non fanno parte soltanto i personaggi coinvolti, bensì, in modo implicito, tutto ciò che è al di fuori, ossia, il mondo esterno, la realtà da cui si sta cercando di sfuggire. L’umanità che ci scorre davanti non è giudicata, né scrutata morbosamente, bensì è semplicemente mostrata, nel senso più puro del termine. Disconnect ci offre figure lungi dall’essere a tutto tondo, presentandosi in molteplici sfumature, tre la quali non vi sono “buoni e cattivi” poiché il filo rosso che li unisce è quello del dolore e, soprattutto, della solitudine. L’incomunicabilità che Michelangelo Antonioni profeticamente dipingeva nei suoi capolavori 40/50 anni orsono è ora portata all’ennesima potenza: non si parla, si digita, non si è, si proietta una propria immagine che può essere più o meno veritiera. La disconnessione del titolo non è soltanto quella dai congegni elettronici, che porta a uno smarrimento, a quel vuoto pneumatico che porta molti a domandarsi “e adesso cosa faccio?”, ma è in primis quella dei rapporti umani, ormai troppo spesso costruiti su parole formato qwerty e foto ritoccate. Disconnect commuove, spinge a riflettere e, soprattutto, fa sorgere una certa nausea verso quella schermata blu e bianca da cui siamo tanto attirati.

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