(Interstellar) overdrive

(Interstellar) overdrive – sulla rotta di Nolan: MEMENTO

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REGIA: Christopher Nolan
SCENEGGIATURA: Jonathan Nolan (racconto Memento Mori)
CAST: Guy Pearce, Carrie-Anne Moss, Joe Pantoliano, Mark Boone Junior, Russ Fega
NAZIONALITÀ: USA
ANNO: 2000

In questi giorni è in corso a Roma, nel spazio del Chiostro del Bramante, una mostra sull’incisore e grafico olandese Maurits Cornelis Escher. Un artista unico, dall’incredibile preparazione matematica e geometrica, che con Christopher Nolan e il suo cinema intrattiene ben più di un legame. Il regista britannico, laureato in letteratura e cineasta molto attento a sollecitazioni culturali da ricercare ben oltre il perimetro del grande schermo, gli deve infatti moltissimo. Un debito che si è manifestato agli occhi del mondo una volta per tutte con Inception, colossale e architettonico ordito in cui la dimensione del sogno nel sogno è elevata a potenza ennesima, unendo lo sforzo titanico della costruzione a una storia d’amore che somiglia a una storia di fantasmi, per quant’è inquietante e priva di appigli concreti. Nolan, dopotutto, è da sempre un costruttore maniacale, un grande giocattolaio. Che con Escher condivide la bellezza intellettuale e speculativa delle sue creazioni ma anche una certa sterilità che è conseguenza diretta di organismi filmici troppo perfetti e pertanto anche un po’ fini a se stessi e autoconclusivi, nei quali la complessità concettuale e prospettica ha più da spartire con una percezione ingegneristica della realtà o delle sue infinite moltiplicazioni che con l’arte.

Ciò non toglie tuttavia che ci possa trovare davanti, e vale per entrambi, a opere dense, magniloquenti, perfino gigantesche e stupefacenti, pur con tutti i loro limiti e il loro compiacimento su grande scala tutto da decifrare. E’ così per il terzo e ultimo capitolo della saga nolaniana dedicata al Cavaliere Oscuro, a detta di chi scrive il più confuso ma anche il più affascinante della trilogia, ma anche per il film che fece conoscere il talento di Nolan al mondo rendendolo fin da subito un filmmaker di culto, meritevole dell’idolatria scalmanata dei cinefili di tutto il mondo. Memento, film su cui ovviamente moltissimo è stato detto e scritto (online fioccano schemini e compendi per accedere alla comprensione dell’opera, alcuni molto sofisticati e attendibili), è un’operazione-limite che restituisce allo spettatore il caos della mente derelitta del protagonista Leonard Shelby, attraverso un montaggio non lineare e non sequenziale degli eventi narrativi, capace di trascinare chi guarda direttamente nelle sue amnesie, simili a incubi senza via d’uscita in una cornice da metaforica parabola noir.

Leonard è affetto infatti da una malattia che gli impedisce di ricordare quello che ha fatto nell’ultimo quarto d’ora. Quando gli uccidono la moglie, il suo equilibrio già fragile crolla del tutto e la detection di se stesso diventa la sua ossessione. E allora ecco che ricorre a polaroid, post-it sparsi, appunti sul suo stesso corpo e tatuaggi vari per facilitare la propria memoria a breve termine e mettere ordine nel soqquadro totale che ha in testa. Il film rispecchia in tutto e per tutto questo meccanismo, assimilabile a un “capriccio di scale”, per usare il titolo di un’opera di Escher, in cui si va avanti e si torna indietro di continuo, si sale e si scende, seguendo in ordine cronologico l’ultima scena, poi la prima, poi la penultima, poi la seconda, e così via, in modo tale che l’ultima scena effettiva del film sia quella centrale e che lo spettatore viva sulla propria pelle la stessa condizione mentale di Leonard. Un gioco ad incastro giustamente bollato come rivoluzionario all’epoca, ma che al di là dei meriti indiscutibili (il malessere è profondo e il montaggio totalmente asservito a tale scopo) tradisce l’ombra di un sentimento del tempo e di una concezione del cinema e dell’uomo del tutto schiavi di forze irrazionali e nevrotiche, in cui le convulsioni e gli spaesamenti vengono più dalle pretese manipolatorie e cervellotiche dell’autore che da altro.

Guardando Memento, ma soprattutto riguardandolo tante volte come credo tutti i cinefili della generazione del sottoscritto avranno fatto, viene davvero il sospetto che l’occhio del cinema di Nolan nasconda davvero un teschio al suo interno (ancora Escher…), ovvero che dietro lo sguardo del regista ci sia una visione mortifera e cerebrale delle cose incapace di aprirsi e andare oltre se stessa. Un cinema che lavora sempre su ciò che è, non su ciò che potrebbe essere. Un cinema determinista dalla rigidissima ostentazione di conoscenza razionale, in cui nulla è mai spontaneamente viscerale e tutto quanto ha la sola urgenza di essere metalinguaggio, congegno perfettibile che è talmente ben oliato da respingere più che attrarre. E’ vero, sono le stesse accuse che tanti hanno mosso negli anni a Kubrick, del quale qualche ardimentoso è pronto a considerare Nolan l’erede diretto. Peccato però che una scena dall’istanza deliberatamente commovente come la morte del piccolo Bryan in Barry Lyndon Nolan non la girerà mai. Aspettando Interstellar, naturalmente. E sperando, con tutto il cuore, di essere smentiti.

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