summertime sadness

SUMMERTIME SADNESS: AVERE VENT’ANNI di Fernando Di Leo

REGIA: Fernando Di Leo
SCENEGGIATURA: Fernando Di Leo
CAST: Gloria Guida, Lilli Carati, Ray Lovelock, Vittorio Caprioli 
NAZIONALITÀ: Italia
ANNO: 1978

BRUCIA RAGAZZA BRUCIA

Il terzo tassello della trilogia erotica di Fernando Di Leo è un film fuori tempo massimo. Vede la luce nel ’78, eppure argomenta tematiche vecchie almeno dieci anni: fughe on the road, amore libero, comuni, stile di vita alternativo e antiborghese. Ciò nonostante è proprio questo ritardo cronologico ad innervarne l’apparato metaforico, conferendo alla pellicola una sottile cattiveria che le permette di elevarsi oltre i suoi palesi difetti formali e, in parte, di scrittura (con buona pace delle psicologie e degli psicologismi tanto cari al Di Leo sceneggiatore). Brucia ragazzo brucia e La seduzione erano operazioni provocatorie, entrambi – quasi “meyeriano” il primo, simil “lolitesco” il secondo – miravano a picconare lo status quo familiare e matrimoniale aggredendolo dall’interno, grazie all’ingresso di un disturbante e, fino ad allora sconosciuto, fattore esterno che finiva inevitabilmente per sabotarne il meccanismo conservatore; mentre Avere vent’anni è opera anarcoide, che sbeffeggia lo stereotipo hippy al fine di denunciarne l’inefficacia sulla media e lunga durata. Avere vent’anni è un film cattivo, perfido. Brutale.

Outcast autoriale all’interno di un panorama dei generi finalizzato alla serializzazione, Di Leo propose un modello di donna antitetico a quello dei ’70 a mano armata italiani a partire da Il Boss: in Avere vent’anni, Gloria Guida e Lilli Carati aggiornano quanto (in parte) già performato da Antonia Santilli durante la violenta e sorprendentemente consensuale relazione fisica con Henry Silva. Quella di Fernando Di Leo è una rivoluzione nella rivoluzione: il ’68 ha fallito, quel che ne resta è uno squallido specchietto per le allodole buono solo ad attirare due sciacquette vuote e presuntuose. Gnocche quanto sia vuole, con un caratterino niente male, tuttavia prive di una grande intelligenza.

Attorno alla loro avventura estiva gravitano personaggi simili a cimeli ambulanti, avanzi di un’utopia rimasta tale. Ray Lovelock, corrispettivo maschile dei due corpi mozzafiato femminili, testimonia la prova fisica della fine di un sogno: larva nuda ai confini della narcolessia, ormai insensibile persino ai piaceri della carne; mentre “il nazariota” Vittorio Caprioli sbeffeggia, a suon di freddure, il mondo nel quale è elemento imprigionato, quasi vi fosse condannato per anzianità. Sembra, a tratti, di rivivere la stessa formula ironica che Di Leo, anche grazie a Caprioli, brevettò due anni prima ne I padroni della città allo scopo di smascherare la gretta e per nulla nobile ignoranza di una certa mala di periferia. Medesima è l’arma utilizzata ora per colpire un obiettivo  diverso: l’irrealizzabile e bugiardo universo parallelo dei figli dei fiori.

Avere vent’anni sfrutta al massimo il ritardo sui tempi, condannando l’arretratezza dell’Italia presunta giovane, che nel ’78 gioca ancora ad imitare il peace and love quando il mondo, quello vero, ha già cambiato strada. In questa italietta di cartacarbone, comunque gretta e sempre un passo indietro rispetto a nazioni ideologicamente più svelte e fresche di testa, non c’è spazio per due signorine un po’ così, naif e libertine: incapaci di stare al mondo, ancora all’oscuro di cos’è realmente la vita, anche quella alternativa. Il finale di Avere vent’anni ce lo ricorda con brutale puntualità, rievocando senza mezzi termini il fantasma del Circeo.

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