DAVID FINCHER pt. 3 – La sindrome del proiezionista

LA SINDROME DEL PROIEZIONISTA

E tutto un discorso unico, fatta eccezione per Alien 3 (ma nemmeno troppo), che del Cinema di Fincher ha tutto, come abbozzo, rimasto a grado fetale. È tutto un discorso unico, quello di Fincher, volendo cercare una morale, la marcia(ta) dei filosofi: che i risultati sono l’annullamento degli stessi, che la somma di tutto dà zero, che non rimane che una nuova delusione a missione compiuta. I suoi personaggi li lascia così, galleggiare nel vuoto. Sarebbe comodo parlare di Fincher partendo dalle imputazioni, dai presunti difetti: delle copie e delle ripetizioni, che sarebbe controbattere di utilizzare sempre lo stesso basso, la stessa chitarra, di imprecare e bestemmiare alla stessa maniera; utilmente partire da chi non si dà sforzo di capire, senza notare la frattura netta a cavallo tra un decennio e l’altro, senza capire che un incubo giallo è diverso dallo stesso incubo dipinto di nero. È delle fughe da un presunto male che Fincher parla, fronteggiato alla pari: una vendetta verso un carnefice imprecisato, di una naturale indole a sacrificarsi, di circuiti e stanze chiuse, di labirinti che potrebbero anche essere imparati a memoria. Here we go: partiamo da accuse, da controbattute e da inutili esatazioni, senza palesarle (almeno prima di perderci), ché addentrarsi nei più condivisibili pregi di Fincher sarebbe come dire che d’inverno fa freddo, dopo aver visto uno suo film anche decine di volte per puro piacere, fino ad ammettere che il sole è stato creato per far sì che esistessero gli occhiali da sole.


SURPRISE ME

Che Fincher abbia svolto il mestiere quando ancora era necessario e quando una delle implicazioni era di rivedere lo stesso film decine, centinaia di volte potrebbe essere un(o s)punto: spazi angusti, ripetitività, sacralità, lo stesso feticismo per il mezzo, per il poliestere, per lo schermo chiuso a sua volta incorniciato dalla sala stessa. La stessa pellicola prende vita in Seven, in Fight Club: incisa nel primo, incendiata nel secondo. La storia dei fotogrammi subliminali. Tutte chiacchere, adesso. Fincher faceva negli anni novanta quello che troppi fanno oggi per esaltarsi con la postproduzione di scarsezze digitali, falsi discorsi-sul-medium ed implacabile plastica nostalgia à la mode, ché il suo era un osare, al punto giusto. Seven: con quel flash di Gwyneth Paltrow ad acuire il finale, Fight Club con quell’irruzione alla Woody Allen che concentrava in una scena tutto il film. Zodiac presentava un proiezionista, ma il discorso lì era già tutto diverso, trattato con divagazione ma precisione, più come la programmazione in The social network. Con Panic Room come transizione, quando Fincher ha scelto il digitale anche il suo cinema lo è diventato (tranne che per una debolezza nell’incipit in Benjamin Button) e, come se lo sapesse, in Fight Club l’ha resa protagonista – vedremo.

Sindrome del protezionista, s’intendeva: la saturazione. Dello spazio, del tempo. Ma non la (cara vecchia) alienazione, i tempi non sono più solo moderni e chi ne parla e chi la subisce rimangono separati il più possibile. Saturazione, emanazione, infezione, possessione: dei pensieri, degli spazi, delle case, dei seminterrati, delle indagini. Scontrati, sbeffeggiati, rivoltati, contaminati: un unico riversamento dove le vittime delle simmetrie devono espandersi, perdere il centro. Come rampicanti, ecosistemi impazziti, personaggi escono da loro stessi, pareggiare il conto con il disordine creato dalle regole, ritrovandosi senza innocenza a volerne uno tutto loro di disordine, nel paradosso di nuove regole. La dittatura che risponde alla dittatura, eccolo l’annientamento.


PICTURE ME

Continuare a girare lungo un’orbita perfetta e ritrovarsi a vomitare. Simmetria, regole, perfezione: come di un qualcosa – chiamabile Bene, chiamabile Male, nella migliore delle ipotesi Non-mio di un protagonista, o di villain (che in realtà non c’è mai) – che non si qualifica, ma solo si polarizza. Fincher ci dà la reazione più estrema, ma quasi mai la causa scatenante, al più racchiusa nelle righe più comprensibili di sceneggiatura, ma poi lasciata in un angolo, accidentale della storia, per una stabilità necessaria, regolamentazione del rapporto con lo spettatore che in un cinema ci entra per caso, e/o per mascherare un’innata esaltazione: catarsi biblica in Seven, noia d’alto bordo in The game, quella yuppie in Fight Club, un cuore spezzato in The social network, quest’ultima perché l’artificio più adatto, per fare una cornice completa, non potendo trattare unicamente di mitomania. E ancora, sorvolando la diegesi, e facendone membrana, nel suo unico film nato per inseminazione artificiale, Benjamin Button: la vita stessa annoiata, a porsi al contrario, come conto alla rovescia questa volta troppo grosso, larger than life; questa volta il tempo stesso dittatore, dove nel 1995 era un elenco di sette punizioni e nel 1999 un intero quartiere imbottito di esplosivi.


(T)RENT ME

Attrazione per lo spazio chiuso, i film di David Fincher invocano una galera, un labirinto, una agglomerato di tubi di plastica per cavie di laboratorio, esseri umani tanto compiuti da non piangere più, consumati tanto da ripartire da un ghigno pur(ificat)o, come, a volte gridandolo, a volte no, pronunciassero allo specchio «Usami, voglio sacrificarmi». Soffitti, pavimenti, inquadrature da stretti angoli, muri riempiti di follia schematica. Se Fincher dirigesse uno di quella miriade di documentari sui segreti del Terzo Reich o degli Zar, o sul sistema fognario di qualche grande città, ne farebbe dei capolavori. O trecento inquadrature di un uomo che nel suo bagno fa quello che fanno tutti. Il richiamo al claustrale è onnipresente, Panic room è il sopravvento preciso di questo particolare, il film dove l’ossessione prende vita visiva e si materializza in tutta una casa, in tutta una vicenda. E sempre, la chiusura sembra l’unico orizzonte possibile, disegnato sui muri, un’illusione ottica di cui non poter fare a meno: il mio muro, il mio tutto, scandendolo mattone per mattone – non una seconda natura, ma una terza natura, che si rifugia dalla seconda, dove l’habitat è fatto di materiali, oggetti, roba, florida e lasciata a marcire insieme. In Fincher rivive tutto l’ammasso più tradizionale di thrilling filtrato dal Polanski più fisico, più deciso: se dichiaratamente Zodiac riprende Chinatown, dove tutto è reso vano e insieme imprescindibile, Cul de sac è la carne, L’inquilino del terzo piano l’anima, tanto da far sembrare The ghostwriter un film “alla Fincher”, con lo Scorsese di Shutter Island che non sa più da che parte guardare.

Scrivendo, verrebbe da fare un diagramma di Venn, da quanto le meccaniche istintive si ripresentano, e forse risulterebbe come unione del tutto proprio il film bastardo (ostacolato in produzione, lasciato al montaggio) Alien 3, secondo la fantomatica regola del tutto-nell’esordio che talvolta vale: vedendolo ora, tante o forse troppe pulsioni (è oltretutto l’unico Alien veramente con una scrittura articolata) e desideri visivi sono lì, limpidi, come se ogni film successivo fosse l’intenzione di ri-fare un tot di scene di quel film abbandonato.


KILL ME

Da qualche parte, in un’intervista, Brad Pitt, parlando di Benjamin Button, diceva di un finale in pieno stile anni 2000, in confronto a quello di Fight Club, anni ‘90. Senza mettersi a fare gli annalisti del cinema americano, c’è un osso che è stato spezzato, tra un millennio e l’altro, e sarà che morire è passato di moda o che l’esser soli ha cambiato, con internet, la propria connotazione, o ancora che l’autore è riuscito al quarto film a compiere quel che voleva senza nulla poi aggiungere, ma fino ad un certo punto l’unica via d’uscita era l’immolarsi, la morte per suicidio: come tornando a casa ci si ritrovava davanti al nulla, Fincher faceva compiere ai suoi protagonisti il gesto decisivo, la presa di una scelta definitiva e totale. Ripley covando la bestia, John Doe scrivendola ed interpretandola (con Mills come semplice esecutore), Nicholas Van Orton fuggendone, il Narratore e Tyler Durden costruendola: da un lato o dall’altro, sopra o nel mezzo al proprio cancro (coltivato o da cui esserlo), porsi fine, completarsi; e tutto in un crescendo di contesti, da una galera spaziale all’oblio della lucida follia biblica, ai miliardi, poi self-made/destroyed man. E se Panic room mette in pausa tutto questo, non lo fa il resto, evoluto nel non-finire-mai o nel finire-non-mai: i turn off diventano stand by, per inconcepibili happy ending (e il finale cambiato di Millennium è la riprova), come se il morire fosse diventato troppo morbido rispetto al rimanere vivi e senza meta: Zodiac, Benjamin Button, The social network e Millennium terminano e basta – con protagonisti che hanno in mano un Tutto che si smaterializza. Cronache di disillusioni, di autostrade che non portano da nessuna parte, di corpi bellissimi dove la parte più importante è la deturpazione di un neo. Fincher, il giallo, lo ha inasprito, sciolto, spolpato: se in Seven l’assassino si consegna da solo, in Zodiac lo si trova troppo tardi e senza certezza, in Millennium neppure c’è. Intanto stiamo lì ad aspettare che Benjamin Button muoia e, in The social network, Baby you’re a rich man ma intanto stai lì davanti al computer come qualsiasi sfigato innamorato.

E se c’è proprio da usare la parola Pessimismo, e se c’è proprio da usare la parola Morale, eccole qui: il pessimismo è in questi ultimi film quattro film, dove non c’è risultato, e l’autentica morale è che la soddisfazione non esiste. Togliendo, ancora, Panic room: se nelle quattro pellicole riecheggiava un imperativo che potrebbe essere «Muori alla grande», nei quattro dcp rimane «Alla grande», lasciando che le inquadrature sfaldino tutto, fade out, negando ai propri personaggi, che non vanno mai considerati in conflitto ma come emanazioni contrapposte di un unico pensiero, un autentico successo. Il senso del sacro viene piegato, per stare nelle dimensioni del reale: tutti i protagonisti di Fincher hanno a che fare con delle scimmie spaziali, anche quando lo sono loro stessi; tutti sono dentro una struttura – architettonica, mentale, scritta – in senso amplificato, fino a farla combaciare con il film stesso, fino ad annullare la stessa figura del regista, in Benjamin Button, dove l’esistenza stessa è derisa da un dio, ridotta a una lista, a un network, ad un progetto nichilista.


USE ME

Burattinaio Fincher, se il senza-fine del girare in digitale si riflette nei film stessi. La mente di un poeta decadente e il modus operandi di un ingegnere fisico. Implosione del mezzo, se la pellicola da buttare deve effettivamente essere buttata, mentre un file in realtà non esiste neanche se non tra un clic e l’altro: fare fumo o non essere semplicemente più visualizzabile e poi pronto ad essere sovrascritto. La celluloide per immagini sporche e sgranate, innegabilmente vive, quando invece i pixel chiamano da subito il vuoto, il ripetibile all’infinito. Come non ci fossero più storie da completare, esequie da celebrare, ma una sola bolla dove galleggiare. Il requiem alla celluloide è lì, negli ultimi fotogrammi di Fight Club: non un cazzo gigante e tutto il cool declamato, ma la fine delle fiabe, dell’inizio-fine e dell’andare dall’alba al tramonto, dell’importanza delle immagini, dal cinema alla videoteca a youtube, per andare incontro a momenti qualunque in luoghi qualsiasi, dal nastro adesivo al mouse, da un cd di ottanta minuti con tracce in un ordine pensato ad un lettore mp3 da cinquemila brani. Andando sul personale, per mera associazione ed in prima persona, una volta vidi Fight Club in televisione, su Rete 4 in prima serata, in una versione clean dettata dal Moige: conoscendolo (troppo) bene, sembrava di ascoltare un cd rigato dall’inizio alla fine, con scene scorciate, ribaltate, annullate, dialoghi a metà, con conseguenti buchi di sceneggiatura e disagi anche del semplice sensoriale, come fosse un problema di antenna. In Fight club c’è tutto il narrare e il narrabile, ogni scena è la più importante: il risultato di un’ascesa, il morire-alla-grande compiuto, il farsi esplodere solo dopo aver imparato a fare le bombe a cui sono seguite vicende a brandelli, fatte di corpuscoli, pezzi di carne indistinguibili da calcinacci e compensato indistinguibile dai pensieri. Finalmente: mai realmente addormentato, mai realmente sveglio. E tutto questo con i soldi delle major.

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