L’ AMORE CHE RESTA di Gus Van Sant

REGIA: Gus Van Sant
CAST: Mia Wasikowska, Henry Hopper, Schuyler Fisk, Jane Adams
SCENEGGIATURA: Jason Lew
NAZIONALITA’: USA
ANNO: 2011
USCITA: 7 ottobre 2011
T.O: Restless

DA MORIRE

Due adolescenti, Annabel ed Enoch, si conoscono in maniera un po’ strana. Sono entrambi frequentatori di funerali, in cui si introducono a sbafo. Ohibò, saremo mica dalle parti di quei film mai abbastanza dimenticati come Kissed o Love Me Deadly? Niente del genere. Man mano che la storia si dipana si scoprirà che i due ragazzi sono profondamente coinvolti con la morte. Lui perché uscito da un coma – e ha ‘vissuto’ tre minuti in cui era clinicamente morto – anni prima, a seguito di un incidente stradale che gli ha portato via i genitori; lei perché malata terminale, con un’aspettativa di vita di pochi mesi. Poco credibili due ragazzi così carini, dolci, bellini e graziosi, che dovrebbero essere fisicamente segnati da una malattia mortale o dall’essere usciti da un coma. Lei addirittura sembra una via di mezzo tra Audrey Hepburn e una versione solare della Mia Farrow/Rosemary polanskiana. Poco importa in realtà, il cinema non si fonda sulla verosimiglianza quanto sulla sospensione dell’incredulità, e la bellezza dei due è un segno della loro vitalità e solarità, della loro forza nell’affrontare e assecondare la morte.

Dopo tanti funerali nel film possiamo dire che Gus Van Sant sia al funerale del suo cinema? Lasciata ormai alle spalle la quadrilogia sulla giovinezza e la morte, che già risultava affaticata in Paranoid Park, il regista torna a uno stile ‘normalizzato’ e tematicamente sembra invertire la concezione di quei film, o proporne una che ne rappresenti l’altra faccia della medaglia. La morte non è una pulsione connaturata in un mondo adolescenziale inquieto votato all’autodistruzione. Al contrario è un qualcosa di esterno che i due protagonisti accettano proprio con l’energia della loro giovane età. Dove sono i belli e dannati della Columbine o di Paranoid Park? Per la verità uno scampolo di questi è rappresentato dai ragazzi che vogliono malmenare Enoch nella notte di Halloween. Ma il momento è davvero ridicolo: lo ‘spiegone’ affannato della situazione – loro lo canzonavano perché orfano, lui li ha picchiati ed è stato espulso dalla scuola –  e il fatto che questi siano travestiti, guarda un po’, da trogloditi… Per piacere!

La visione che Van Sant da della morte è quella, non consolatoria, di un mondo deterministico, di una concezione positivista dove la lunga barba bianca dell’immagine di Dio è rimpiazzata da quella austera di Charles Darwin. La figura del grande naturalista serve a inserire il relativismo della brevità della vita, un battito d’ali se rapportata ai tempi geologici così come l’esistenza di una farfalla. La filosofia del regista sembra prendere dalla serena rassegnazione della morte degli orientali, evocata dalla figura del fantasma di Hiroshi, il kamikaze. Come nelle antiche storie giapponesi di kaidan o nel teatro noh, dove coesistono i vivi e i morti, predomina il concetto zen di impermanenza, transitorietà della vita: un ciliegio in fiore la cui bellezza dura pochi giorni prima di sfiorire. E in ciò rientra anche l’importanza che il film dà alla natura: molte scene sono ambientate in parchi dai colori autunnali, fotografati con toni scialbi, non carichi, e la prima coltre di neve segna la dipartita di Annabel. Le stagioni dell’anno sono quelle della vita.

Il regista ricorre a delle efficaci elissi di montaggio per stemperare i momenti drammatici. Lascia fuoricampo i verdetti implacabili del medico, dopo le visite di Annabel, e similmente anche Enoch, nel suo racconto dell’incidente, utilizza una omissione narrativa: passa dalla descrizione del viaggio in macchina alla frase «la polizia disse che quel camionista era tanto ubriaco che neanche si ricordava dell’incidente». Va dato atto quindi che Van Sant riesce sempre a mantenersi nel piano della delicatezza e della sobrietà e, a parte qualche sviolinata di troppo nella colonna sonora a tratti leziosa e stucchevole, non scade nella carineria e nel patetico. Ma da un autore del suo calibro non era lecito aspettarsi qualcosa di più?

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