PROMETHEUS di Ridley Scott

REGIA: Ridley Scott
SCENEGGIATURA: Jon Spaihts, Damon Lindelof
CAST: Noomi Rapace, Michael Fassbender, Charlize Theron, Guy Pierce
NAZIONALITÀ: USA
ANNO: 2012
USCITA: 14 settembre 2012

AUGURI AI FIGLI POLIPI

Il cinema dei blockbuster sembra ormai diventato prevalentemente una questione di sequel, prequel, remake, spin-off, segnale di una mancanza di idee generalizzata. Non rifugge a questo meccanismo Ridley Scott, che torna sui suoi passi, quando ancora firmava capolavori, a quell’Alien già “sequellato” all’inverosimile. Alien in effetti è diventato come il maiale: non se ne butta via niente. Scott, con Prometheus realizza quello che dovrebbe essere il pre-pre-prequel del suo celebre film con Sigourney Weaver. Se da un lato il regista si garantisce il lavoro per i prossimi anni, va comunque riconosciuto che l’operazione Prometheus lo fa tornare ai fasti, o quasi, di un tempo. Forse non doveva lasciare la fantascienza…

Prometheus è un omaggio alla science fiction cinematografica che va dai tardi anni sessanta ai primi ottanta, epoca in cui furono partoriti i più importanti capolavori del genere, che Scott riesce a rivitalizzare con le moderne tecnologie di effetti speciali. Di più il film sembra ripercorrere un itinerario cinematografico che parte dalla space opera di fine anni sessanta (2001: Odissea nello spazio, Star Trek), fatta di astronavi che solcano il cosmo, contemplazione estatica dello spazio profondo – l’ultima frontiera –, esplorazione di pianeti sconosciuti. Nella seconda parte Prometheus approda a quella fase, di fine anni settanta / inizi ottanta, in cui la fantascienza si venava di horror, con La cosa di Carpenter e naturalmente Alien.

Un’astronave claustrofobica, tra la Discovery e il Nostromo, con i suoi uomini ibernati, le sue tute spaziali sull’appendino. Da subito emerge la figura ambigua dell’efebico David (Michael Fassbender), una via di mezzo tra il Dave Bowman di 2001 e il Data di Star Trek: The Next Generation. Scott si permette proprio una citazione diretta dal film di Kubrick: il computer di bordo lo saluta con un «Salve, Dave!», la stessa battuta di Hal 9000 per Dave Bowman. Ma il David di Prometheus si rivela ben presto esso stesso una macchina, un replicante. E assimila anche la funzione narrativa di Hal, la macchina che acquisisce un pensiero autonomo e può svincolarsi dagli ordini dei suoi creatori. Scott gli aggiunge un’ulteriore dimensione, quella di Lawrence d’Arabia / Peter O’Toole, ancora con una citazione diretta, che lo vorrà emulare nelle imprese tra le tempeste di sabbia di un pianeta sconosciuto.

E i temi temi della SF classica abbondano nella prima parte. Si va dall’esplorazione del pianeta che sembra la tipica spedizione dell’equipaggio dell’Enterprise, all’alba dell’uomo e alla fantarcheologia, secondo il tòpos raeliano in base al quale la specie umana è stato creata per intervento di una superiore civiltà extraterrestre e che, una volta raggiunta la civiltà spaziale, questa possa dirigersi a incontrare il suo creatore. Scott ricrea anche quell’estetica di far vedere dall’esterno gli interni dell’astronave, mediante vetri e oblò, secondo lo stile che era di Douglas Trumbull, il grande autore degli effetti speciali di tanti classici (2001, Incontri ravvicinati del terzo tipo, il primo film di Star Trek, Blade Runner). Scott si rende conto che tanta acqua è passata sotto i ponti e tratta comunque la materia con cinismo e una buona dose di dissacrazione. L’astronave Prometheus non porta una missione governativa di alto valore scientifico, ma appartiene a una corporation privata che agisce secondo logiche di profitto, incarnate nell’efficienza aziendalista del comandante Meredith Vickers (Charlize Theron). Gli stessi astronauti sembrano essere dei mercenari, trattati come impiegati. L’apice del disincanto si ha quando questi citano, ma con ironia, la famosa definizione di Neil Armstrong, del grande balzo dell’umanità, privandola così di tutta quella enfasi della grande scoperta.

Lo snodo tra le due parti del film avviene con il “first contact”, altro grande tòpos fantascientifico, che sembra far esplodere un vaso di Pandora di creature cangianti come la cosa carpenteriana, di biscioline, serpentelli e vermi. Scott ricrea così quell’inconfondibile estetica gigeriana che lanciò proprio con il suo Alien, fatta di cordoni spinali, tentacoli, sarcofagi, orifizi, liquidi amniotici, feti deformi. Dalla biologia evoluzionista e dalle mutazioni del DNA Scott passa alla macelleria parassitologica, sempre in stile Alien, fatta di contaminazioni corporee, anche per via sessuale, vermi che invadono il bulbo oculare (anche questi esistono in natura – il nematode tropicale Loa loa –, Scott non inventa nulla così come si era ispirato in Alien alla vespa che inserisce le uova nel corpo di ragni vivi, le cui larve divorano il corpo dell’ospite).

E lo schema narrativo di Alien si ripresenta tal quale. Elizabeth Shaw/Noomi Rapace è la nuova Ripley/Sigourney Weaver e, per ricordarcelo, Scott la esibisce discinta in biancheria intima e mutandoni. Combatterà nell’astronave assediata e rimarrà l’unica superstite…
Ma nessuno dice che Ridley Scott torna a fare un film autobiografico. L’alieno che l’aveva già parassitato in passato, mutandolo in un bravo regista, è finalmente tornato a impossessarsi di lui. Era ora. 

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