BIANCA COME IL LATTE, ROSSA COME IL SANGUE di Giacomo Campiotti

REGIA: Giacomo Campiotti
SCENEGGIATURA: Alessandro D’Avenia, Fabio Bonifacci
CAST: Filippo Scicchitano, Aurora Ruffino, Gaia Weiss, Luca Argentero, Romolo Guerreri, Flavio Insinna
NAZIONALITÀ: Italia
ANNO: 2013
USCITA: 4 aprile 2013

SE SI POTESSE NON MORIRE

Ritornare (i)dio(ta), adolescente confuso demente naif ma con quell’inconsapevolezza beautiful and so blasè, lontanamente da compatire e da sfottere ma poi piangendo di nascosto quando l’immagine penetra i vortici cerebrali che sanno di un sogno chiamato passato, tanto rincorso quanto esiliato, di sicuro mai dimenticato. Più che ai dementi mocciani, il film di Giacomo Campiotti sembra guardare più ai Jun’Ai giapponesi, letteralmente tradotto come «Puro Amore» e che comprende nel suo filone opere come Midnight Sun di Norihiro Koizumi e Crying out love in the centre of the world di Isao Yukisada. La tagliente e toccante nostalgia è la medesima, quella che odora di canzone d’amore estiva che rimettono in radio 10 anni dopo resuscitandoti i dolenti fantasmi color arcobaleno del primo amore. Sa un po’ di veleno e un po’ di elisir, in ogni caso, di un incanto che si tramuta nel soffio di un brivido malinconico. Ecco perchè Bianca come il latte, rossa come il sangue è un emo-romance pre-coito, perchè è capace di unire le frasette banali dei Baci Perugina con una spontanea vivacità quasi totalmente estranea al cinema italiano; per ritrovare delle immagini e delle suggestioni così permeanti bisognerebbe tornare al Muccino di Come te nessuno mai, opposto eppure gemello complementare di Bianca come il latte, il suo Yang, la conseguenza che hanno attraversato 14 anni di cinema. Le zecche di Muccino correvano affannosamente cariche di aspettative e speranze, occupando la scuola e scopando nei tetti, i giovani di Campiotti sono paralizzati e non sanno bene cosa rispondere quando gli chiedi dei propri sogni, figuriamoci se qualcuno tromba. Qui, in un mood totalmente anacronistico, si preferisce prendere la chitarra per intonare una canzone o rotolare per la stanza facendo i clown buffoni di turno. I regali sono quegl’attimi di apparente distrazione, un saluto demente nel buio di un cinema o un passo di danza che s’intravede nel corridoio, fotografie mentali e il colorarsi di un sentimento embrionale confuso ma autentico. Campiotti sa quando spegnere le parole per lasciare le immagini nel loro danzare più melodico, e regala ai suoi protagonisti la possibilità di ballare sulla morte, d’immaginarsi se con un salto si potesse anche volare, se in un abbraccio si potesse scomparire, se i baci si potessero anche mangiare. E lui, il protagonista Filippo Scicchitano, è un alieno che non sembra sbagliare un singolo film, corpo che riesce a incarnare quella dolce innocenza così densa di vitale freschezza tragicomica; immenso.

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