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Una vita di ordinaria follia: FRANK di Lenny Abrahamson

Michael Fassbender as Frank Sidebottom in 'Frank'

REGIA: Lenny Abrahamson
SCENEGGIATURA: Jon Ronson, Peter Straughan
CAST: Michael Fassbender, Domhnall Gleeson, Maggie Gyllenhaal
NAZIONALITÀ: UK/Irlanda
ANNO:  2014

Quante volte, guardando un film, ci siamo trovati di fronte allo scrittore in preda a una crisi creativa? Che si trattasse di una lettera, una poesia, un romanzo, le prime parole buttate giù sembravano suonare sbagliate, banali, vuote. Pensieri intasati, emozioni sopite e parole sterili, e una mano finiva per stracciare la carta scritta, o per scivolare sul tasto canc della tastiera. Frank, il film dell’interessante regista irlandese Lenny Abrahamson – noto per le sue analisi dell’emarginazione dal taglio confidenziale – comincia proprio così, con la presentazione di un ragazzo comune, intento ad accostare suoni e parole nella speranza di comporre una canzone, una canzone che non vuole saperne di uscire. Tuttavia, diversamente dai film in cui lo sblocco della situazione degenera in storie e personaggi di grande levatura, non ci vuole molto per capire che Jon (Domhnall Gleeson), il protagonista, non è un fenomeno musicale, e forse non è nemmeno un protagonista. Jon è un uomo comune, con abilità ordinarie, che porta avanti il suo lavoro per inerzia e suona la tastiera per hobby. Ma Jon è anche in cerca di una sua particolarità, qualcosa che lo distingua dagli altri perché, per quanto mediocre, possiede abbastanza sensibilità da capire che l’originalità è un valore. In questo caso lo sblocco della situazione avviene quando, per un caso fortuito, Jon conosce gli Soronprfbs, una band d’avanguardia che pare trasudare creatività da tutti i pori, a partire dall’atipico frontman Frank (Michael Fassbender), un uomo “tra i trenta e i cinquant’anni” che indossa una gigantesca e buffa maschera di cartapesta che non toglie mai, nemmeno sotto la doccia. Frank, a prescindere dalla sua celata espressività facciale, è un tipo carismatico, pieno di talento, dal background tanto affascinante quanto inquietante, tanto che Jon non può fare a meno di dismettere i suoi panni, accantonare la sua identità, e dedicarsi a scoprire Frank, a imparare da Frank, a essere Frank, fino a quando la sua sanità mentale non comincerà a rappresentare un vero e proprio ostacolo…

Frank è un film molto complesso, a partire dall’approccio narrativo che non fa leva su un singolo punto di vista e sull’indagine di un solo – seppur eterogeneo – mondo, ma sulla presentazione di mondi diversi, che talvolta si sfiorano, dando vita a connessioni altrimenti improbabili e a strani fenomeni di interdipendenza. Lo sguardo di Abrahamson non è assoluto e non è giudicante, i mondi indagati sono quelli della fantasia e della realtà, dell’ispirazione e dell’aridità, dell’invisibile e del tangibile, ma anche della malattia e della sanità, della follia e della normalità, e sono mondi che non si escludono a vicenda (nessuno è meglio dell’altro) ma che comunicano e si contaminano. Jon, entrando nel mondo di Frank e della sua band, si crea il background di cui ha bisogno, un’esperienza fatta di anomalie cui attingere per nutrire la propria neonata creatività, e allo stesso modo Frank si lascia affascinare dalla normalità di Jon, ne accetta lentamente e inconsapevolmente le definizioni e i limiti, un recinto che però finisce per compromettere fino a estromettere l’estro. Abrahamson indaga tutti i confini esistenti tra i mondi descritti, ne rappresenta la forte attrattiva, ma anche la potenziale minaccia. Il limite estremo, ossia il punto più alto della creatività e dell’originalità, è anche quello posto sulla soglia di un altro mondo. Per Frank e il suo gruppo di outsider, avvicinarsi a quel limite, alla genialità, è un momento di grande lucidità, un momento in cui ci si costringe a provare e riprovare per registrare il proprio album, con disciplina, affacciandosi insomma sulla soglia della regolarità. Per Jon, che invece viene dal mondo della normalità più avvilente, la genialità è posta sulla soglia della degenerazione. Il  limite, insomma, finisce per essere lo stesso in cui Jon e Frank si incontrano, la baita isolata nel tempo e nello spazio che Jon ribattezza su Twitter #attraversolospecchio.

In questo senso il film si offre anche come rappresentazione ideale e acutissima del confine che separa il mondo della musica di nicchia, poco accessibile, e la musica popolare e orecchiabile, e le interpretazioni che di esse, da una parte e dall’altra della barricata, possono esse fatte. Il riferimento più evidente è Frank Sidebottom, la maschera comica creata dal musicista punk Chris Sievey, che qui ha un impatto esteriore provocatorio mentre cela un disagio interiore, ma le citazioni musicali si spingono oltre e si riferiscono a cantautori come Daniel Johnston e Captain Beefheart, che hanno fatto della sperimentazione musicale la propria ragione creativa, spesso sfidando l’armonia di suoni e parole. La rappresentazione appare ancor più acuta se si pensa che il regista non propone una distinzione fatta sulla base della diffusione – l’escamotage dell’interazione mediatica di Jon, che opera una continua sponsorizzazione attraverso l’utilizzo dei social network e Youtube, sta a significare proprio questo – la notorietà della band e la circolazione estesa della loro musica, fino alla partecipazione a un festival importante, non significa automaticamente inclusione, comprensione e accettazione, perchè le distanze non si riducono con la condivisione. La distinzione che fa Abrahamson tra musica di nicchia e musica popolare è piuttosto verticale, in profondità, in base alle diverse atmosfere culturali. L’accoglimento al festival, infatti, finisce per essere solo apparente, legato alle logiche spietate di inclusione sociale, in cui la diversità non viene compresa, ma ridicolizzata e quindi accettata in virtù del suo appeal ludico. Non appena il trucco viene scoperto, le maschere che non possono cadere cominciano a venarsi, corrompendo il mondo interiore ed esteriore di chi le indossa. Ognuno torna a rifugiarsi nei propri spazi d’origine e se capita di incontrarsi di nuovo ci si saluta a distanza, per non correre altri rischi. Eppure qualche segno è rimasto, la musica è cambiata, e forse da qualche parte c’è un po’ più di dolorosa normalità, mentre da qualche altra c’è un po’ più di sana follia. Imperdibile!

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