HARA-KIRI: DEATH OF A SAMURAI di Takashi Miike

REGIA: Takashi Miike
SCENEGGIATURA: Yamagishi Kikumi, Takibuchi Yasuhiko
CAST: Ichikawa Ebizo, Eita, Mitsushima Hikari, Takenaka Naoto, Aoki Munetaka, Arai Hirofumi, Namioka Kazuki, Amano Yoshihisa, Hira Takehiro, Yakusho Koji
NAZIONALITÀ: Giappone
ANNO: 2011
In concorso Cannes 2011

UNO STRAPPO NEL VESTITO DELL’ONORE (A OGNUNO, IL SUO) 

Quella del cinefilo è una categoria almeno bizzarra. Abitudinari un po’ snob, gli appartenenti alla categoria sono spesso affetti da quell’uggia nostalgica per cui tutto ciò che è venuto prima è migliore di quel che viene e verrà. A peggiorare le cose, spesso si aggiunge la tendenza a giudicare per compartimenti stagni e aspettative precostruite basate sul lavoro di un certo regista che – visti alcuni dei suoi film – si porta appresso l’aspettativa di certi spettatori autoconsideratisi ”esperti”. Il cinema di Miike Takashi cade in pieno in questi due flussi di ragionamento: regista eclettico, multiforme e con alle spalle una carriera fatta di decine e decine di film dalla commedia al fantastico al thriller, eppure la sua cifra autoriale classificata nella vulgata di molti gruppetti di fan è sempre quella dell’eccesso, basata su una manciata di pellicole che lo hanno reso noto anche al di fuori dei confini nipponici: Audition, Ichi the Killer, Visitor Q, tra gli altri. Così, quando arriva un film di Miike che non è riconoscibile immediatamente come film ”da Miike”, ecco spuntar come funghi le delusioni, le ”aspettative tradite”, i ”si stava meglio quando si stava peggio”, e giù giù fino ai giudizi lapidari stile ”il cinema asiatico è morto”…

Hara-Kiri: Death of a Samurai, che segue di pochi mesi l’uscita del meditativo ma frizzante 13 Assassini, si iscrive perfettamente in questo contesto distorto di logica cinefila: entrambi remake di classici del jidai geki, mostrano un approccio contemporaneamente fedele e personale agli originali. Se tuttavia il precedente interpolava sul canovaccio del film di Kudo del 1963 una visione laterale e beffardamente umana dell’etica del samurai, in Hara-Kiri: Death of a Samurai la mano di Miike rimane ancora più leggera sulla materia della storia messa in scena da Kobayashi nel 1962, finendo per ridurre al minimo le interpretazioni personali e risultando in un prodotto algido e cerebrale nel suo rigore registico, ennesima prova della versatilità di uno dei registi più incompresi del panorama cinematografico.

Il ronin Tsugomo Hanshiro, che si presenta alla porta del clan nobile per chiedere l’ospitalità del suo seppuku (harakiri), e messo in guardia dal signore del clan che non saranno da lui tollerate promesse non seguite dalla vera azione del suicidio rituale comincia a raccontare la sua storia e in essa i motivi della sua visita, umidi di vendetta, si trasfigura in un oratore in tono minore dalle cui labbra far uscire una filippica sull’onore del samurai senza causa, quando la guerra cede il passo alla stasi della pace e il guerriero professionista rimane sospeso al destino del suo clan, vinto o vincitore, e l’unica scelta che gli rimane è se viviere di stenti o morire la morte degna dello squarciarsi il ventre, e alla fine ci lascia con una sua risposta alla domanda se sia più coraggioso scegliere di darsi la morte (artistica) o continuare a percorrere strade non riconosciute dagli altri ma che per noi hanno un senso umano (e professionale). Ebbene, la risposta di Hanshiro è un po’ quella di Miike ai fan che continuano a chiedergli di essere quel che loro si son convinti che sia: Sorry guys, but I did it My Way.

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