VENEZIA 70 - w.e.

VENEZIA 70: Un tranquillo weekend di decadenza dell’immaginario

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FAREWELL SENSE(I) OF WONDER

The wind rises, aka l’abulia di Miyazaki. Ce lo immaginiamo indolente sul suo trono di incrollabile incantamento, ormai consumato, sepolto dalla senilità o sedotto dalla pigrizia. The wind rises è l’accomiatarsi del sensei all’inesausta ricerca del meraviglioso (“Vogliamo il fantastico, non il realistico, o li vogliamo insieme” urlano i Fuck Bombers di Sion Sono, e hanno maledettamente ragione): l’andatura flemmatica del racconto che richiedeva concentrazione, come in una seduta di yoga meditativa lynchana, è diventata acquiescenza che si trattiene in una pace asfittica, in una masturbazione senza sbocchi. The wind rises è pura sottomissione alla decadenza del proprio immaginario, automatismo letale, fatto di ampollosità sfiancante e romanticismo d’accatto: ci si chiede dunque come possa diventare impiegatizio il lavoro demiurgico del cantastorie, sporco di colori caldi e inchiostro e parole d’acqua, come possa accasciarsi in una ripetizione improduttiva la mitopoiesi bidimensionale che spaccava gli sche(r)mi pervadendoci di fanciullesco ignoto mistero. Eppure, con questi aereoplanini di cartone, con questi personaggi di plastica statica e inerziale, lassù nel cielo (un po’ come nello spazio di Cuarón, ma Gravity al confronto diventa opera grandiosa) non si respira, e di certo non si vola. E dire che non chiederemmo altro che trasformarci in Icaro, tuffarci nel fuoco solare della visione e crollare giù a terra lungo i titoli di coda mentre le nostre finte ali si dissolvono: almeno avremmo toccato di nuovo la luce. Ma la fu bellezza incandescente di Mononoke, di Howl, di Chihiro, si è liquefatta nella letargia: stavolta Hayao spicca il volo all’inverso, giù per un burrone. E se «Guarda sorella siamo diventate il vento» strillava la bimba di Totoro portata a passeggio tra i cieli dal gattone kawai a mille zampe, qui il protagonista Jiro non solo non diventa il vento né il respiro della storia, ma non ce ne fa sentire nemmeno uno spicchio sulla pelle. (F.D.M.)


palo alto

Qualche barattolo riguardo qualche film, trasversalmente: c’è sempre modo di rimanere delusi, senza alcun avamposto a coprire una sezione o l’altra, senza la certezza, ma, purtroppo (:devastante), senza nemmeno la paura, come se la bellezza fosse stata (già) scritta ed il fiuto e l’intuizione corressero dietro ai nomi e alle tracce, senza forse mai poter scoprire dove e quando fu la fregatura. Vetusta, cancrenosa, amata politica degli autori, quella che porta a difendere l’immondizia – la sua immondizia – e a farsi travolgere da film già esistenti, ma solo in questo momento visti (e solo da poco girati), in un villaggio galleggiante (poco più su, po più in basso, poco più esploso ispetto all’ipotetico cento). E via, a difendere il pattume di Miyazaki, a ritrovarsi gli occhi vergini (ché s’erano richiusi durante il Festival) con Dolan. Nessuno si innamorerà del Sensei con The wind rises, e i dolaniani già ringhiavano. E per tutti gli altri sconosciuti: l’istinto delle visioni carnivore, non sbaglia mai. La malattia degli occhi, non sbaglia mai.

The Canyons di Paul Schrader. Giusto per contraddirsi: una schifezza. Ma si tratta di un regista d’un tempo passato e senza mezzi, nella perenne ombra, tanto da non riuscire a mettere insieme la libertà concessa dal low budget e una Lindsay Lohan che sembra Valeria Marini caduta per terra e rialzata dopo tre giorni. Non mette insieme il soft e l’hard, non mette insieme foto di cinema abbandonati e Bret Easton Ellis. Gus Van Sant fa la sua particina, scorrono gli A Place To Bury Strangers. Ma è tutto blu come un filmetto porno fatto con un vecchio telefono. Perché il regista (che dorme dentro Paul Schrader) non c’è: la sovversione diventa incapacità.

Joe di David Gordon Green & Night Moves di Kelly Reichardt & Child of God di James Franco. Forse si può salvare un film per una singola smorfia di Nicolas Cage. Tutto il retaggio americano possibile presente in Joe, rende gli Stati Uniti (ancor più) il peggior luogo al mondo. Furgoncini, fucili, vecchi che scatarrano, parenti che vogliono ammazzarsi, baracche abbandonate nei boschi, cittadine inculatissime, pick up, lande sterminate, vendette, denti neri, trecento sigarette, no future, camicie a quadri. Ma che posto di merda. La Reichardt ha il tocco marmoreo, le sue immagini non sfuggono: riuscirebbe a creare tensione anche con un bambino che beve il tè. Franco porta la sua camera a mano attaccata ad un freak: schizofrenia, psicosi, eccesso di handicap (nel protagonista), follia marcia, autocompiacimento, corsa. Ma alla fine (sì: è un discorso pressappochista e disinteressato, visto che mentre il “minimalismo” (nel senso più ampio, nel senso peggiore, nel senso più popolano) sembra obbligato non appena gli americani s’allontanano dalla costa) è una corsa (in)consapevolmente western, è vuoto ricalcato sul vuoto, che non ha ben chiaro il suo scopo. Se si tratta di un posto di merda, teatro geograficamente angosciante, per storie di merda (sempre, oggettivamente, troppo simili), senza modo di stimolare un cinema zombificato e non autocompiaciuto: ok. Il problema è che tira fuori il peggio d’ogni autore. Gli occhi slegati di chi è altrove, che non cerca altro che cinema, non possono che ritrovarsi di fronte allo stesso spettacolo, lettera e foglia morta. E si può accettare solo ogni tanto. Non triplicemente in concorso.
[Questa solo una minima parte di quanto si potrebbe dire. BTW, Ognuno dei tre fallisce per un motivo a sé stante].

Palo Alto di Gia Coppola. La nipote è più brava della zia. O, almeno, sa dire della noia senza ricorrere al vuoto a sua volta. Sa far innamorare le persone. Sa far fuggire le persone dall’amore. Sa far tutto senza villain, senza un’entità maligna, senza il solito “dobbiamo andarcene da qua”. Semplicemente adolescenza, semplicemente noia: ma c’è una completezza, c’è del dolce. Senza gerarchie e senza spruzzate emo/indie/provicial-hip. Sta dietro ai suoi personaggi, muove gli attori. Cerca (ed in parte ci riesce) di caricare gli eventi, di ricrearli. Colora. See you soon, Gia.

Miss Violence di Alexandros Avranas. Miss Violence può prenderti e sballottarti, fino a farti tirare i muscoli, fino a separarti in due parti. Tira un emisfero da una parte, buttandoci dentro tutto il dolore visivo possibile, mentre intanto un ribaltamento avviene silenzioso, altrove, inaspettato. Quasi una viltà, ad ogni modo una scelta di stile precisa: minimal-shock, come mai Haneke è stato in grado. Non si tratta di perpetua tortura da vedutismo europeo. Si tratta di una trappola. Che della vecchia sovversione minimalista prende i codici, i tratti arcinoti e li concatena per poi spaccarli in due con il virtuosismo più orrorifico (ma non splatter), con l’enfasi quasi sorrentiniana dell’inquadratura laccata-ad-ogni-costo, che entra nel racconto come coltello nel burro. E nella pancia. Toccando una morale che, come il peggior trucco psicologico, riesce a disseppellire. Ma è uno stare male causato dall’altezzosità, che suggerirebbe quasi una voglia di fuggire da un film. Il film non sta male, mentre lo si guarda. Il film è l’arma, sola semplice arma. Una cura Ludovico, ecco. E se riesce a far tirar fuori una definizione del genere nel 2013, Alexandros Avranas o è un genio del cinema o un grandissimo, schifoso figlio si puttana. (A.T.)

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