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Venezia 2020 – com’è andato il concorso

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Per come si era presentata quest’annata infausta, possiamo ritenerci soddisfatti, perché il Cinema a Venezia c’è eccome. Nel riordinare i pezzi di queste visioni in sale giocoforza mezze vuote, tra file inesistenti (tutte le proiezioni erano prenotabili) e la sensazione ancora maggiore rispetto al solito di ritrovarsi ai confini del mondo conosciuto, anche gli scampoli di un cinema possibile – superstite nel suo presentarsi e farsi vedere, coraggioso col suo saltare nel vuoto distributivo – assumono un loro senso, nel benedetto cervello che prova a trovare un senso, una rima, anche quando non ce ne sarebbe bisogno.
E così ci ritroviamo con un concorso che ancora mescola, con dissenno, svariati tipi di cinema, tra obblighi, omaggi e voglia di scoperta.

CINEMA PERSO

Cinema di attese, da una parte i sogni e dall’altra gli incubi. Cinema della dilatazione, come quello di The Disciple di Chaitanya Tamhane e quello di Səpələnmiş ölümlər arasında (In Between Dying) di Hilal Baydarov. Da un lato la musica, il sogno, la contemplazione, dall’altro l’incubo, il tormento. Due cinema ti tempi e di tempo, due esperienze immersive assolutiste e ostiche, che una volta accolte diventano quel cinema infestante che è impossibile non amare.

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CINEMA RITROVATO

Non sempre ti si apre il cuore quando il cinema stesso pone in primo piano la propria espressività, è cosa propria dei grandi autori saper utilizzare le forme “precedenti” di cinema, le sue peculiarità, il suo non poter essere, nei momenti migliori, null’altro da ciò che è. Forma-cinema come forma-film come forma-cinefila ed enarrazione nuova quanto di ieri.

Così ci ritroviamo con Amos Gitai premere sul suo più tipico virtuosismo, per quanto lo sviluppo non regga l’incipit nel suo Laila in Haifa, mentre al contempo Kiyoshi Kurosawa fa televisione a 8K con il suo Wife of a Spy annegando nel più classico dei racconti di spionaggio, spogliato dalle esuberanze stilistiche di oggi, essiccato nello stile di ieri. Quasi come Andrej Končalovskij che col suo Dear Comrades! cerca il sapore di un’epoca, quella degli Anni 60.

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A CASA TUTTI BENE

E non riusciamo ad esimerci dal prendere in considerazione il reticolato produttivo di casa nostra, provando a capire quali flussi sanguigni e di parentela possano legare queste pellicole, quasi tutte legate alla storia del paese, ai suoi luoghi, ai suoi sapori emozionali. Per quanto partano da vicende private, finiscano col ri-scrivere luoghi ed episodi in modo essenziale: è ciò che accade con Le sorelle Macaluso e Padrenostro.

Ma fortunatamente il cinema italiano sconfina e, seppur Notturno di Gianfranco Rosi sia di base la riprova dei suoi limiti, Miss Marx di Susanna Nicchiarelli riesce a portarci un cinema trasversale, pop, immaginifico ma senza esondare.

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DONNE D’OLTREOCEANO

E se del Leone d’Oro Nomadland e di Pieces of a Woman abbiamo detto il dicibile, a questo forzatissimo trittico si aggiunge The World to Come di Mona Fastvold, il più deciso e marcato dei tre, ma al contempo il meno caustico. Perché se le tematiche e l’ambientazione – un rapporto saffico negli USA rurali della seconda metà dell’800 – sono sulla carta le più infiammabili, è una messa in scena tutto sommato canonica e poche volte capace di respirare a pieni polmoni a rendere il film veramente interessante, al di là della marcatissima componente melò. Rimangono comunque tre film che speriamo, al di là dei loro meriti e delle loro qualità intrinseche più o meno presenti, possano creare un solco da poter seguire.

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DI RIVOLTE E RIVOLUZIONI

Pensando anche al succitato The World to Come, verrebbe da dire che c’è da diffidare dei film con la parola “Mondo” nel titolo: And Tomorrow the Entire World (Und morgen die ganze Welt) di Julia von Heinz racconta di attivismo antifascista nel modo più lineare e paleo-televisivo possibile, a riprova che le idee e i concetti non sono sufficienti a fare del cinema che sia veramente politico. Tutto l’esatto opposto di Nuevo orden di Michel Franco che, agli antipodi, della rivolta e della critica ne fa rappresentazione esasperata e oversize, splatter e spietata, volutamente rumorosa e incasinata, votata all’action come al messaggio dritto e schietto. Ma i laghi di sangue, alla fine ricordano più i laghi del sangue. E nel mentre, Quo vadis, Aida? di Jasmila Žbanić sta nel mezzo, film molto più di significati biografici e sociali che di espressione degli stessi.

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