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Italiani Fuori (Concorso)

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Se la presenza italiana in corso non è soddisfacente – a conti fatti si tratta di un unico film (Suspiria non è un film italiano) – non dobbiamo crucciarci. Anche Sulla mia pelle, per molti motivi, è stato meglio che sia rimasto fuori dai giochi, da certi giochi. Ma Venezia è un po’ come Natale, quindi perché non darsi a qualche ritualismo, sfruttando l’occasione per farsi domande invereconde tipo “Dov’è e dove va il cinema italiano”?

Al netto delle battute plausibili e certi che certa retorica non dia alcuna risposta, puntiamo i fari su una manciata di titoli abbandonati in Laguna, consci che nessuna somma o calcolo potrà dire niente di nuovo.

Intanto perché un timbro utilizzabile per marchiare a fuoco in senso nazionale – o anche solo territoriale – questo cinema nostrano non esiste più da prima che fosse mandato il primo SMS (1992).

Sempre “intanto”, perché solitamente si finisce col fare gli stessi nomi (che qui non ci sono) e, spesso, lo stesso genere – quello del neorealismo attuale, talvolta magicheggiante, quasi sempre pornografico.

Eppure sappiamo che in Italia, a fare i film, almeno ci si prova.

Ma subito abbiamo un esempio spurio (al netto di rivendicazioni italiche riguardo la Costa Azzurra): Les Estivants di Valeria Bruni Tedeschi, che nuovamente dirige come recita, esangue ma desiderosa  di vita. E di Francia e di stilemi francesi – quelli sì che esistono ancora, eccome – pulsa una pellicola semplice quanto intima, scanzonata quanto personale. Niente di bollabile come “ombelicale”, per quanto sostanzialmente autobiografico, perché Bruni Tedeschi non ha alcuna intenzione di esagerare ed il risultato e unicamente piacevole, con la sua leggiadria malinconica. Certo, i paletti imposti dalla commedia borghese fanno sempre digrignare i denti, ma la Summertime Sadness è di tutti e nessuno ce la può togliere. E sarebbe auspicabile una programmazione così, di commedie umane senza doversi ritrovare ogni volta davanti all’”idea” che si affloscia dopo quarantacinque minuti e non sa come risolversi.

Così come di idee irrisolte è infatti Una storia senza nome di Roberto Andò, autore (inteso come “colui che ci prova e ogni tanto ci riesce”) che ci piace sempre ma mai del tutto, questa volta alle prese col thriller europeo (ecco un’altra etichetta territoriale). Tra un’infarinata polanskiana e il segno della croce rivolto a robetta come Il Codice Da Vinci, ci prova – tra storia dell’Arte, ghostwriter ed omicidi – il risultato è però meno che altalenante. La voglia di accumulare elementi senza però approfondirne alcuno pesa ineluttabilmente, la regia perde il fiato dopo uno scatto iniziale e tutto si riduce a una sequela di avvenimenti, tra piste valse, twistini di comodo e mere divagazioni. A far reggere è il connaturato spirito del Giallo, la scoperta della verità, ma è la struttura a risultare inconsistente, con uno script bocciabile (proprio a livello accademico) e una resa visiva e di ritmo completamente dimenticabile.

Così come dimenticabile La profezia dell’armadillo di Emanuele Scaringi, tratto dalla prima opera di Zerocalcare. Siamo evidentemente davanti a un film fatto perché semplicemente qualcuno ha deciso di farlo, senza crederci assolutamente. Fermo restando che tra le strisce e le opere più corpose di Michele Rech ci sarebbe materiale per più stagioni di una serie, qualche idea e un lavoro – che si avverte come sudatissimo e non sempre brillante – di taglia e cuci per compattare il tutto nella durata di un film ci sono, ma rimaniamo dalle parti del’adattamento blando, quello famigerato de “Il film basato su”. Seppur la cornice sentimentale, i giochi di flashback e la rappresentazione dell’Armadillo diano ragion d’essere al film, il tutto resta e rimane un prodotto piccolo e senza – ahinoi – palesemente senza pretese, di passaggio in Orizzonti e destinato ad un immediato passaggio nei cinema. Ma tanto lo sappiamo che la maggioranza della fanbase (enorme, ma distante dalla massa) lo guarderà in streaming una serata d’inverno.

Insomma, diciamo che, come sempre, ci si prova. Ma la distanza tra produttori e pubblico sembra sempre incolmabile in certi casi.

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