L’ UCCELLO DALLE PIUME DI CRISTALLO di Dario Argento

REGIA: Dario Argento
SCENEGGIATURA: Dario Argento
CAST: Tony Musante, Suzy Kendall, Enrico Maria Salerno, Eva Renzi
NAZIONALITÀ: Italia, Germania
ANNO: 1970
USCITA: 19 Febbraio 1970

BLOW – UP

Metallo fuso, elaborato, solidificato. L’Argento è un materiale prezioso che, lavorato artigianalmente, può travalicare l’oro. Non importano i grammi né i carati ma solo ed esclusivamente, la possibilità di creare (per possedere) qualcosa di raro, di unico e di inimitabile. Sicuramente l’Argento maturo, dopo aver subito svariati passaggi e variegate ibridazioni, e aver conseguito, inesorabilmente, diversi risultati si è allontanato (anni luce) da quel modello originale che tutti volevano (provare a) copiare. Nome nomen, dunque, come marchio di fabbrica ma anche come appendice ad un work in progress che si è fossilizzato, da troppo tempo, in un buco nero senza fondo, divenendo, nient’altro che, un prodotto di bigiotteria come tanti.

Un Argento scelto, calibrato, preso a piccole dosi. Lente d’ingrandimento puntata sul (breve) momento in cui egli, come i suoi spietati assassini, sceglie(va) con criterio le sue armi, le affina(va), rischiando, frequentemente, di caricarle più del dovuto. Una scelta temeraria, pericolosa, troppo spesso azzardata, eppure efficace. Una decisione folle ed improvvisa che tutto sembra(va) fuorché lucida. Ma efficiente. Bersaglio centrato, colpito e affondato, almeno finché il suo capitano non ha deciso, volente o nolente, di andare a fondo con la sua nave.

L’uccello dalle piume di cristallo segna il suo esordio cinematografico ma costituisce anche il primo capitolo di quella trilogia zoologica che portò allo scoperto la sua tendenza a giocare di rimandi e posticipazioni. Ossessionato dalla voglia di stupire, di sconvolgere, di shockare lo spettatore, Argento realizza pellicole in cui, la scena chiave, assomiglia ad un disco riprodotto all’infinito. Una cantilena arcana, un motivetto ambiguo, una nenia infantile che si comprende appieno solo con la crescita. Del personaggio, certo, ma anche dello spettatore. Il primo, dopo travagliate indagini e rischiose investigazioni, scopre, proprio come il Thomas di Blow-Up, quel particolare che (gli) sfuggiva a prima vista; il secondo si accorge di essere stato inserito nel sadico gioco di un demiurgo psicopatico. Un Jigsaw che manipola prima la baracca, e poi i burattini. Riprende squarci di una Roma caotica e popolare trasformandola in una località senza nome né personalità, un labirinto mentale che, allegoria di una pazzia congenita, ingloba e disperde i suoi abitanti e i loro pensieri.

Realtà e finzione, sogno e incubo, fantasmi immaginari e ombre tangibili, perdono i loro confini e si fondono in un mix letale e fatale di orrore e fascinazione. I killer argentiani, spesso appartenenti al sesso femminile, incarnano quell’antitesi perfetta tra seduzione e aberrazione, tra provocazione e rifiuto, tra magia e stregoneria. Megere dell’epoca moderna, le donne sanno utilizzare il loro corpo per sedurre le proprie vittime e portare gli uomini a provare per loro un amore incondizionato, assoluto, malato. Sirene di un dolore universale e di un grido silenzioso che non potrà mai tacere, uccidono in modo seriale, ciclico, rituale. Detentrici di una follia omicida incurabile che affonda le proprie radici in un’infanzia traumatica e, momentaneamente, rimossa, si confondono nella folla e cercano di non destare sospetti, se non per colpa di una bellezza dolcemente grave e gravemente dolce. Di giorno vestite di un bianco candido e incontaminato, di notte avvolte in mantelli neri come la morte che assumono pennellate rosso sangue. Un simbolismo cromatico che eccede, che straborda, che fuoriesce dal significato stesso della pellicola per divenire metafora di un mondo corrotto e corruttibile e, purtroppo, in perenne divenire.

Lontano dal cinismo di Mario Bava, dall’eccesso sanguinolento di Lucio Fulci e dall’eclettismo di Elio Petri, Argento contrappone campi a controcampi, dettagli a campi lunghissimi, brutti ceffi a donne angeliche, strizzando l’occhio al western di Sergio Leone. Nel combattimento vis a vis dei suoi personaggi, però, non concede la vittoria al migliore, ma a quello che ha giocato sporco e che, bluffando dall’inizio alla fine, ha mietuto più vittime. Un Norman Bates di ultima generazione che, stanco di impagliare uccelli, colleziona antichi e inquietanti cimeli. Un salto nella psicologia del personaggio per conoscerne l’anima e svelarne i segreti. Un Labyrinth intrinseco ed enigmatico da cui se ne può uscire solo a patto di (voler) conoscere la vera leggenda di Jack lo Squartatore. O di chi ne fa le veci.

L’uccello dalle piume di cristallo si ispira a La statua che urla di Frederic Brown, ne condivide l’umorismo nero e la satira sociale ma se ne discosta per tensione e inquietudine. Lo scrittore statunitense, capace di intrigare il lettore attraverso un utilizzo spietato e spiazzante di un linguaggio colloquiale, sapeva catturare la sua attenzione e tenerla desta attraverso depistaggi e indizi fuorvianti. Argento apprende la lezione, prova a replicarla nella settima arte, ricalcando le orme del collega, ma vi riesce in modo goffo e impacciato e si perde per strada. Nonostante tutto però, forse involontariamente, modella un nuovo genere, il cosiddetto “giallo all’italiana”, lo conia a sua immagine e somiglianza, lo esibisce in una teca di vetro. Con un sottofondo inquietante di sospiri, sussurri, voce roche e prepotenti percussioni dirette dal maestro Morricone, tuttavia, il film rimane imperfetto, difettoso, forse, fallato, eppure un diamante prezioso, sebbene allo stato grezzo.

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