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Revenge di Coralie Fargeat: L’alba della donna

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Regia: Coralie Fargeat
Sceneggiatura: Coralie Fargeat
Cast: Matilda Lutz, Kevin Janssens, Vincent Colombe, Guillaume Bouchède, Jean-Louis Tribes
Anno: 2017
Produzione: Francia

 

Un deserto infinito, di luce dura e aridità sterminata.

Tre uomini corazzati, armati fino ai denti, colonizzatori, cacciatori, un branco schiumante superiorità inoppugnabile, è l’ordine naturale delle cose, bellezza.

Una donna, preda designata, bamboletta sexy burrosa, Lolitina ammiccante, occhiali a cuore e orecchini di stelle, tutta occhioni e boccuccia, bella bionda e sembra dirà sempre sì.

Una villa lussuosa, di abbagliante e autoritaria simmetria, rivestita da colori ipersaturi, rosa-verde-blu shocking, filtri cromatici che uniformano e disorientano, spiazzano le coordinate, paraventi giocattolo.

Il sesso: ovunque intorno e addosso a lei, traboccante, invitante, ammaliante, esposto su un piatto oro e argento, di carne, pronto da piluccare, un’aura magnetica e tangibile, il sesso come è scritto dalle leggi scopiche maschili, l’oggettivazione e il possesso, l’estasi delle linee curve, delle scollature in esplodere, della danza erotica che accende un segnale a senso unico.

La violenza: una mela che marcisce, un desiderio che si impone soverchiante, maturando si annerisce, non accetta altra soluzione che non sia l’appagamento convalidante la propria potenza, la propria ineludibile oppressione; poi la fuga, l’assedio, il sangue, la morte. E, quindi, il cambio di marcia, il capovolgimento dei giochi.

 

Rinasce dal fuoco e dalla birra, Jen, vendicatrice di una Storia (dell’uomo – appunto – e del cinema) troppo a lungo portatrice di una posizione parziale e riduttiva, di un modello di sguardo unico e di limitata prospettiva. La ricostruzione dell’immagine del femminino, la rivendicazione del proprio passato (l’albero in fiamme, appiccate dalla stessa Jen, che “diventa” una strega, una creatura pronta a riscrivere il mondo) si attua prima in un luogo – il deserto – dove la profondità di campo diviene mezzo di stratificazione dei caratteri, simbolo di un allargamento di visione, contenitore in cui perdere il proprio segno, foglio bianco su cui edificare una nuova era, una ripartenza, l’alba della donna (2018: Odissea nello spazio; ma c’è anche molto, mi piace pensare, del Carver di So Much Water So Close To Home). Ancestrale, appunto, giacché la rinascita vera e propria si ha in una caverna, in solitudine, nel buio e nelle fiamme, sulle ali marchiate nella carne, senza tuttavia rinunciare all’essere della propria umanità, alla concretezza del proprio corpo (Jen non è una donna d’acciaio, una supereroina, una cyborg woman).

 

Poi, la vendetta ultima – il gradino definitivo da superare, dopo aver debellato l’inetto complice e omertoso e il violentatore bestiale -, si compie nell’alveo domestico, sede storica di violenza silente e connivente, tv accesa dove berciano vestali del sistema, conduttrici plasticose tirate a lucido e ammansite, e a svettare sulle pareti l’enorme quadro con la Madonna – le due uniche possibili realtà femminili -. Contro la fallocrazia bruta e prevaricatrice, spogliata di tutti i suoi orpelli e ordigni, un patriarcato mellifluo di bellezza scultorea e muscolare, specchio di una casa-prigione che improvvisamente si disfa, labirintica e spirale, gira a vuoto, su se stessa, come lui, ormai in trappola, mentre il sangue eccessivo testimonia di una Storia da terminare una volta per tutte. Per farlo, sono bastate una ragazza e una pistola.

 

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