STOIC di Uwe Boll

REGIA: Uwe Boll
SCENEGGIATURA: Uwe Boll
CAST: Edward Furlong, Shaun Sipos, Sam Levinson, Steffen Mennekes, Reese Alexander
NAZIONALITÀ: Canada
ANNO: 2009

SO BAD THEY’RE GOOD

Strana la carriera di un regista, alle volte. Prendiamo quella di Uwe Boll. Si impegna, mette anima e corpo nel realizzare film-pastrocchi che possono ambire ad entrare nella categoria dei so bad, they’re good, così brutti da risultare belli. Pellicole tanto strampalate e malfatte da provocare nello spettatore quel misterioso processo mentale denominato “Pasqualismo”, ovvero ciò che Totò provava mentre un tizio lo prendeva a schiaffi: tanto dolore, ma allo stesso tempo, l’irresistibile e masochistica voglia di vedere dove il picchiatore in questione voleva andare a parare. Il suo nome diventa sinonimo di cinema scadente e sempre più spesso si pronuncia in conversazioni di questo tipo: “Chi Uwe Boll? Quello delle schifezze Alone in the Dark e House of the Dead?”. Nella Rete si promuove una petizione per interrompere la sua storia di cinematografaro alla Ed Wood. Poi, dopo anni di questo andazzo, gli scatta una scintilla che sentiva di avere dentro, si accende una lampadina nel suo buio autoriale, gli casca una mela davanti ed, eclamando Eureka!, si ritrova a scrivere, produrre e girare un prodotto come Stoic. Le storture di un tempo sembrano lontane anni luce. Certo, stavolta trova anche degli ottimi alleati. Una storia tratta da una vicenda realmente accaduta in una prigione tedesca. Quattro attori in stato di grazia. Un direttore della fotografia che gli confeziona una luce fredda perfetta per il taglio a metà tra documentario e torture-movie che vuole dare al film. Boll, però, ci mette del suo e lo fa con perizia e controllo. Probabilmente l’oggetto filmico è nelle sue corde e questo racconto di claustrofobica brutalità carceraria può giostrarlo senza esitazioni. Inoltre, lui azzecca i tempi e le scelte registiche, non si mette a strafare con inutili moralismi e decide di guardare gli eventi con il giusto distacco. Scrive dei dialoghi efficaci e fa sì che le dinamiche tra i protagonisti siano credibili. Stoic è il suo Carnage e lui dimostra competenza nel tirar su un impianto teatrale durante il quale si indaga sulla morte di un prigioniero in una cella condivisa con altri tre detenuti. La tecnica narrativa scelta è quella della ricostruzione a ritroso di un fatto per portare alla luce ciò che lo ha causato. C’è un morto ad inizio film e tre possibili colpevoli ed il tutto si è consumato in uno spazio grande abbastanza per contenere due letti a castello, un cesso ed un lavandino. Il morto, impiccato, si è suicidato, è stato indotto al suicidio o si tratta di un omicidio mascherato da suicidio?  Lo scopriamo attraverso l’alternarsi tra gli interrogatori ai tre sospetti e la riproposizione delle vicende sotto forma di flashback. Obiettivo e fulcro della narrazione di Boll è quello di raccontare il cortocircuito mentale che può scattare anche da futili eventi se determinate persone vengono costrette a vivere in determinate situazioni. Il carcere è fonte di devianza psicologica più che di correzione. Homo homini lupus in un branco in cui c’è un debole che si rifiuta di sottostare alle sue regole. Roba già vista, è chiaro, ma probabilmente non ancora rappresentata con la stessa ferocia cui ricorre il regista tedesco. Ferocia da terrorimo psicologico, torture il cui climax di violenza diventa, alla fine, quasi insostenibile. Il risultato nel complesso, si ribadisce, è di alto livello. Forse solo Uwe Boll con la sua tenacia teutonica si poteva aspettare di portare a termine un lavoro simile. Bisogna dargliene atto e sperare che continui ad essere il cane sciolto del cinema europeo che è sempre stato con la nuova consapevolezza e la voglia di non buttarsi via. Tenga bene a mente la parabola di Adrian Lyne: una mediocre sequela di film patinati, poi, bum!, la folgorazione di Allucinazione perversa, infine ancora la mediocrità. Proprio strana la carriera di un regista, alle volte.

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