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ROMA – Alfonso Alfonso Cuarón: Cerchio perfetto come Giotto

Regia: Alfonso Cuarón
Sceneggiatura: Alfonso Cuarón
Cast: Yalitza Aparicio, Marina de Tavira
Anno: 2018
Produzione: Messico, USA

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Cosa più interessante/sorprendente di cui parlare riguardo Roma rimarrà la sua parabola produttiva/distributiva: Netflix, boicottato a Cannes in lungo e in largo, finanzia il progetto di Alfonso Cuarón, Venezia se lo cucca, lo incorona, già Oscar-oriented, pronto per i piccoli cinemini pseudointellettuali e sotto gli occhi dei netflixomani (due categorie solo apparentemente opposte ma che in realtà sono complementari), attraverso un buzz da “caso” imprevedibile. Ma, tralasciando quelle che possono essere le impressioni del pubblico più generalista tra i generalisti, abituato a serie di otto episodi e a film Originali,forse per la prima volta alle prese con un film in bianco e nero e tassativamente in lingua originale, cos’è questo ottavo film del regista americano (in senso continentale) più versatile tra i suoi commilitoni (Del Toro e Iñárritu)?

Una replica, una redistribuzione di concetti, un cambio di tonalità (ma non di tono), una riproposizione sintattica. Cuarón è un regista di forma e forme, di composizione del quadro, di tempo presente, di capillare ricerca delle dinamiche interne, capace di creare “drammi autosufficienti”, “scatole della malinconia” in frame immobili e dilatati, questa volta a velocità minore del solito, sia visivamente che temporalmente: tramite un indugiare, una carrellata, un pan, sfoggiando meccaniche in cui perizia, arguzia e spettacolo si sovrappongono. Un pittore del sontuoso, che sa mettere a proprio agio lo spettatore, fin troppo si potrebbe dire: nella sua vocazione popolare (nel senso ottimo del termine), non c’è attrito visivo, ma sempre e solo velluto, in cui ogni momento dato – fin dai titoli di testa – contiene in sé le istruzioni per leggerlo, comprenderlo, empatizzarlo. È questa la forza della sua autosufficienza, della sua regolarità formale: una sorta di gioia pittorica che lo fa distanziare dai più; non si tratta di un “sbattere in faccia il cinema” ma di farlo lentamente scivolare attraverso gli occhi. In un periodo di aspect ratio anarchici, Cuarón con Roma riempie il cinemascope fino all’ultimo pixel, sempre carico ma mai rumoroso, piuttosto impetuoso e caloroso. Sia che si tratti di un parto, di un salvataggio in mare, di un salotto, avvertiamo sempre le linee del racconto, sia orizzontali che verticali. Non siamo mai lasciati soli con film, abbiamo sempre la cintura di sicurezza e le direttive giuste, anche al di là della metafora di cornice, abbiamo il cuore illuminato da un faretto che punta in un’unica direzione.

Una situazione di (e)stasi, tanto solida e sicura da risultare talvolta stretta, da farci avvertire certi piani sequenza come una mera imposizione formale, ogni gesto o espressione un pulsante, una sfumatura univoca. Ma a rendere Cuarón degno di nota ed accoglienza è il suo saper disciogliere il proprio autocompiacimento nel film, anche se – impossibile sarebbe – non fino a cancellarlo, da quanto è forte il suo accademismo personale, anzi sempre più solido. Perché la pulsione che sta dietro a Roma è in realtà la stessa che sta dietro a Gravity: nella gestione degli spazi, nelle attenzioni sulla protagonista, nella vivificazione formale sempre secondo quando detto poco più su.

Nello spazio più main e nei ricordi personali, Cuarón cerca la medesima intimità. Un’intimità a cavallo tra naif e tribolazione, tra orchestrazione e pancia, tra dolore e maestosità, tra acqua e silenzi. Via via sempre più lontano (ma mai troppo velocemente) dagli approcci della sua filmografia precedente, Roma è un punto d’arrivo quasi eccessivo nella propria cura, nel proprio entusiasmo di cineasta, che speriamo non abbia seguito. Perché il candore, senza contrasto, diventa un’immagine vuota.

 

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