DEAD MAN’S SHOES di Shane Meadows

REGIA: Shane Meadows
SCENEGGIATURA: Shane Meadows, Patrick Considine

CAST: Patrick Considine, Gary Stretch, Jo Hartley, Toby Kebbell
NAZIONALITÀ: UK
ANNO: 2004 

MIA È LA VENDETTA, ESPIAZIONE

Il miglior film di Shane Meadows. Meglio di This is England? Si! Difficile, al giorno d’oggi, imbattersi nel privilegio cinefilo di un’opera tanto a fuoco e affilata, moralmente sorprendente rispetto all’abusato tema della vendetta. Nell’impresa vi è riuscito, in tempi non sospetti, Dead man’s shoes, capace di toccare livelli recentemente sfiorati solo dall’unanimemente applaudito Lady Vendetta di Park Chan-wook. A due anni esatti dal precedente C’era una volta in Inghilterra, Meadows torna a cimentarsi con le non meglio specificate Midlands inglesi, che spesso e volentieri assumono il ruolo di imprecisato luogo geografico all’interno del quale ambientare le storie di provincia tanto care all’autore in questione: universi paralleli ai margini della metropoli che conta, popolati da “meat puppets” campioni d’emarginazione e di perdigionismo arreso e annoiato, spesso alcolico e stupefatto. Sporco, ruvido e tagliente, Dead man’s shoes si configura ben presto come incubo ad occhi aperti, mortale e infallibile nonostante l’accecante luce del giorno che lo affligge; una metafora filmica, tra le righe della quale innestare rimandi metaforici dell’Agamennone eschileo (la partenza per la guerra avvenuta grazie ad un sacrificio familiare, il ritorno a casa e l’inevitabile punizione), riassunti e riformulati nella contraddittoria figura interpretata da Patrick Considine, attore-sceneggiatore attraverso le gesta del quale Meadows rivive l’ennesimo ricordo delle Falkland, prima di riverberarlo definitivamente in This is England, costruendo con e su di lui una maschera pietrangolare, sorta di Rambo ancor più combattuto emotivamente, spietato e inarrestabile nella sua opera di pulizia.  Squarci di free cinema tenuti assieme da una grezza macchina a mano attraversano senza pudicizia alcuna immagini narrative che, solo superficialmente, appaiono sfiorate dalla rilegatura post produttiva: sgraziate ma efficaci, naturali quanto l’allucinato sottobosco che raccontano. Mai ci si è imbattuti, e probabilmente mai capiterà di rivedere, (in) un Meadows così selvaggio e brutale, Lo-Fi e Hardcore-Punk, non tanto per la violenza efferata in sé (comunque portatrice sana di un notevole carico di angoscia, non fosse altro che per l’inquietante impiego della maschera antigas: utilizzata alla stregua di un feticcio slasher), bensì per la qualità e la quantità d’impatto emozionale fornito allo spettatore e delle inquadrature e della spontanea essenza fotografica; abbagliante nel suo abile giocare con le luci naturali, addirittura da stropicciarsi gli occhi nel momento in cui abbraccia il bianco e nero rigato custodito in seno ai flashback, perché forte di una superiorità di colore ancor più efficace dei bicromatici Ventiquattrosette e Somers Town. Meadows era regista con la R maiuscola già nel 2004, la conferma arriva dalle spiazzanti soluzioni visive di Dead man’s shoes, disturbato rape&revenge immortalato come cartolina color smeraldo, sul retro della quale abbozzare lo stilizzato storyboard di una violenta tragedia ad un passo dal compiersi. Calexico e Aphex Twin fanno da collante sonico al perfetto contrappeso caratterizzato da follia del reale e impennate di squilibrata ferocia: Dead man’s shoes procede spedito fino all’inattesa chiosa d’eventi, nell’epicentro della quale il perfido sentimento vendicativo a lungo covato, si trasforma in catastrofico bisogno, necessario a riconciliarsi con l’egoismo d’animo: catarsi, liberazione, espiazione dei propri, giovanili peccati, che fanno della pellicola una poesia funebre incapace di contemplare la sola esistenza di vincitori o vinti, buoni e giusti, umani e disumani, morali e immorali; bensì popolata soltanto da fantasmi, scomodati nel ricordo di un’ingenua e incolpevole vittima.

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