DARK SHADOWS di Tim Burton

REGIA: Tim Burton
SCENEGGIATURA: Dan Curtis, Seth Grahame-Smith

CAST: Johnny Depp, Eva Green, Michelle Pfeiffer, Helena Bonham Carter, Chlo
ë Moretz
NAZIONALITÀ: USA
ANNO: 2012
USCITA:  11 maggio 2012

SENZA OCCHI MA CON GLI OCCHIALI DA SOLE

Tim Burton non ha più ossa spezzate di cui raccontare, sposi e spose cadavere a cui far fissare l’oscurità. Continua la deriva, della coerenza o dell’incoerenza autoriale, del rapida scesa nel facile, sciolti i deliri, determinati adesso dalla forma del proprio divano di casa, dove scegliere la posizione in cui sedersi/sdraiarsi solo o, ecco il punto, in compagnia. Sweeney Todd escludendo, da(l contraddicendosi di) Big Fish in poi, il cinema di Burton si è fermato, nel tilt di immagini sovraccariche e di storie quadrate (e rafferme), come incastrato in un’obesità improvvisa, in click disinteressati, in quelle provvisorie ma definitive messe a mollo del cervello nello sciroppo. Ché La Fabbrica di Cioccolato aveva ancora qualcosa, nascosto dietro e dentro le tinte laccate e il makeup glitteroso, e Alice in Wonderland adesso sembra avere più midollo di Dark Shadows: la propulsione commerciale autentica vs. il voler mettere insieme non-si-bene-cosa. È che Burton, adesso, mette insieme pure troppo, nella sua personale sindrome di Tourette, dove ogni inquadratura vomita tutto il possibile e bestemmia se stessa ed il suo autore.

Passata dal cinema fatto di pezzi (mancanti, cercati, sostituiti, buttati – Ed, Edward, i marziani) e a pezzi (il nero-caldo del primo Batman, il nero-freddo del secondo, per fare un po’ di – oramai – archeologia), facce e corpi e luoghi mutilati, da quando ha preso in mano la postproduzione digitale massiva, la palette (mentale, cromatica) di Burton è diventata un puttanaio.

L’unico macrodifetto di Sweeney Todd (la love story tra biondi-e-pallidi) s’appropria in Dark Shadows di tutta la vicenda: ogni personaggio è contorno, ogni luogo è decorazione, ogni depravazione è una battuta, ogni schizzo di sangue è solo un colore, di viola è pieno ma lividi zero, il bianco e il nero non sono mai tali, vittime della nebbia per scongiurare la computer grafica, offuscati com’anche i protagonisti, bidimensionali ritratti, porta-voce soap opera, punto di partenza e punto di non-arrivo. Tagli di montaggio che sembrano il risultato di uno zaino riempito in due minuti, come d’un campionario di qualcosa, stracci e stralci di storia da ficcare in due ore.

«Non inquadrarmi, perché non ho niente da farmi inquadrare, non ho niente da dire» dice in realtà Johnny Depp in ogni momento, che a fare della mitologia istantanea ormai neanche ci prova più, più unto che altro. Di Helena Bonham Carter sono rimasti l’ham e le sigarette. Danny Elfman al di sotto del demo, al di sotto dell’abbozzo, ormai superato dai suoi stessi imitatori. E girare attorno al 1972 tra canzoni, film, gadget ed Alice Cooper non basta e non basterebbe a nessuno. Mancano gli occhi, Hollywood ending, manca una visione. Dall’inizio: chiaro che non sarà un vampiro a portarci in giro, tanto meno una ragazzina svampita, ma delle sciatte decorazioni fluorescenti. E l’incubo è ammettere che forse è meglio La famiglia Addams di Barry Sonnenfeld, che forse c’è della wesandersonite, che forse si sta perdendo tempo a pensare ad un dolciume visivo 100% industriale.

Amplessi, sesso orale, Mc Donald’s in una battuta sul diavolo (o viceversa), terapeuti alcolizzati, fantasmi fluttuanti, «Vengo dal passato e non ci capisco niente», streghe, hippie, omicidi nutrizionali, ville e fabbriche fatiscenti: la troppa libertà di poter tirare in ballo tutto e di non parlare di niente. Estetismo? No: non si tenta di sformare, di abbellire, di customizzare; sindrome elencativa di un gioco spersonalizzato. W l’accumulo. E i reparti creativi (mentali, umani) a cui hanno tagliato la corrente. Dark Shadows (è una dis)carica di icone scariche, e se fino a qualche film fa sembrava che qualcosa o qualcuno avesse interrotto un percorso realizzativo, adesso è chiaro: Tim Burton funziona a metà, o lascivamente del tutto, senza mutilazioni, asportazioni, trasformazioni. Nemmeno la fisicità sembra interessargli più, né i costumi, né gli spazi: eccola la libertà, di non dover scegliere. Se la si vuol chiamare tale. In vacanza da se stesso.

«E mai e poi mai avrei creduto di poter parlare di piattezza registica in riferimento a Burton» scrisse qui qualcuno di Sweeney Todd. Adesso è tutto il contrario.

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