PIETÀ di Kim Ki-duk – LEONE D’ORO VENEZIA 2012

REGIA: Kim Ki-duk
CAST: Lee Jung-jin, Jo Min-soo, Lee Won-jang, Gang Eun-jin, Jo Jae-ryong
NAZIONALITÀ:  Corea del Sud
ANNO: 2012
USCITA: 14 settembre 2012

FINE PENA MAI, NEL REGNO DEL VUOTO

Materiale esplosivo e fremente, Pieta, rullo compressore a propulsione fattosi cinema, cinema come esperienza disperatamente doverosa, come entomologia abrasiva e bruciante di sogni liquidi e realtà sgranate, di corpi che partecipano ad una vita bassifondiaria e non hanno mai niente da perdere, un cinema dove il sadismo diventa un “male necessario”, dove il ritorno sensoriale è l’effetto collaterale più urgente ed essenziale. Strettamente connesso e focalizzato sulla questione umana e sulla lacerazione moderna della/nella crisi, (de)stabilizzata ed esposta su vari livelli, primo fra tutti quello identitario. Si susseguono gli elementi ricorrenti della filmografia di Kim Ki-duk introiettati in una nuova, acuta consapevolezza: la mutilazione del corpo che passa attraverso un travaglio in grado o meno di portare alla redenzione, il saldo dei propri debiti (Gang-do è il braccio armato di uno strozzino, che mutila per riscuotere quelli altrui, incontra la madre che vuole pagare il suo, ma alla fine sarà lui stesso ad espiarlo), lo spaesamento e lo squallore mefitico della modernità, l’eticità del sacrificio soprattutto femminile (con una prova del fuoco che è uno dei momenti più insostenibili degli ultimi anni, dove carne e sangue irrorano ogni fotogramma).

Per Gang-do il primo incontro con un sentimento equivale ad un salto di campo, ad una rinfrescata di prospettiva, su qualcuno davvero capace di entrare nel conflitto e pronto ad immolarsi per cercare di adempiere ad un ruolo affettivo e assumersene le responsabilità in un mondo dove tutti le fuggono (a parte, appunto, i padri e le madri).

Pieta è, ora più che mai, dopo una privata discesa agli inferi quasi collimante con un suicidio (in Arirang), l’araba fenice sporca di sangue, la testimonianza della resurrezione dello sguardo struggente ed elegiaco di Kim Ki-duk sulla condizione umana. Parla dell’estremismo di un capitalismo ormai (da sempre) selvaggio e cannibalizzante, e intanto stana le nostre paure più profonde attraverso uno scarnificato coacervo di pulsioni interrotte, annegate in un letamaio digitale di colori annacquati, in jump cut rigorosi, in dispersioni di odio e amore e morte dove l’uno ingloba gli altri senza soluzione di continuità. Racconto (im)morale che respira il fetore dell’inesorabile, con Pieta il pugno allo stomaco assume connotati nuovi, onnicomprensivi. La visione si contorce e deforma in un’andatura viscerale, sanguigna e sanguinolenta, senza sconti, che produce una spaccatura emozionale, sballottando personaggi vibranti di vita in fratture sotterranee, archetipiche e dolorosamente attuali; irradia tensione etica e rifulge di potenza indicibile, inaudita e attanagliante.

Da creatura anaffettiva e robotica a dolente maschera tragica, il percorso di formazione discendente di Gang-do entra in rotta di collisione con la vendetta quando la donna, dopo aver colmato in maniera totale qualsiasi buco in campo emotivo, genitoriale ma anche amoroso e persino sessuale – portandolo quasi ad una regressione infantile e spingendosi sino all’ineffabile –, sferra il colpo di coda più straziante. Ma dato che è Madre, unico fattore umano e umanizzante nel regno del vuoto, non può che provare pietà, e questa è forse l’unica cosa che può darci l’illusione di poterci salvare, in un’impennata terminale ferocemente lirica e livida. Mentre Gang-do scivola nel desiderio lancinante di Eros e nell’invidia di Thanatos: l’immagine prefinale è una sorta di trinità apocrifa ricomposta nel dolore.

In mezzo scorre un Ade meccanizzato, popolato di animali da macello in putrefazione individuale; “il denaro è la fine e l’inizio di ogni cosa” e allora non esiste altro che il corpo, che diventa tutto ciò che abbiamo, ma che l’industria trasforma appunto in macchine, e al contempo le macchine dell’industria diventano strumenti mortiferi; anche se poi, nell’universo machista dell’occhio per occhio (o meglio arto per arto) ciò che può davvero distruggerci è l’amore ferito di una madre.

Kim è ora più che mai filosofo, poeta, sciamano implacabile e nobile, lavora con furia epidermica, profondità tematica, (onni)potenza espressiva. La sua è insieme parabola umana, tragedia greca, allegoria politico-sociale, trattato antropologico, percorso di alfabetizzazione emotiva, melodramma viscerale e millimetrico. L’immagine di Gang-do, della Madre e dei figli incide i nostri occhi e ruzzola giù lungo la pelle di un’inguaribile sofferenza, il loro corpo appartiene al dolore ma forse possono diventare amore, se li terremo soltanto per un attimo nei nostri occhi.

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