in sala(?)

STOP THE POUNDING HEART – UN BATTITO FUORI DAL PETTO di Roberto Minervini

stop the pounding heart (2)

REGIA: Roberto Minervini
SCENEGGIATURA: Roberto Minervini
CAST: Sara Carlson, ColbyTrichell, LeeanneCarlson, Tim Carlson
NAZIONALITÀ: USA
ANNO: 2013

Nell’anno che volge al termine in cui il nostro cinema si è interrogato con colpevole ritardo sul confine sempre più labile tra realtà e finzione (Sacro GRA e Tir vincitori ai festival di Venezia e Roma), oltreoceano c’è un cineasta di origini marchigiane ma trapiantato negli Usa che realizza dei film già avanti anni luce rispetto a tale querelle sterile e provinciale, per lo meno nei modi e nelle forme in cui una discreta fetta di critica e opinione pubblica italiana è solita sviscerarla. Il suo nome è Roberto Minervini e Stop the Pounding Heart rappresenta la chiusura di una personale trilogia texana già comprendente The Passage e Low Tide, nonché il suo compimento definitivo. L’America rurale e profonda che affolla con esclusivo diritto di cittadinanza la visione del regista, avvolta nell’anonimato agropastorale di una religiosissima comunità del Sud, è presentata agli occhi dello spettatore come un ferreo microcosmo con le sue leggi quotidiane scolpite nella roccia e le sue limitazioni comunemente accettate, le sue liturgie e le inevitabili bigotterie. Minervini non ha però paura di dare fiato a un soggetto poco accattivante o respingente, vi si abbandona piuttosto anima e corpo, lasciando che il suo angolo di mondo prenda forma sullo schermo anche negli aspetti di sgradevolezza difficilmente condivisibile e ai limiti dell’antipatia. È nella reclusione forzata di questa galassia tutta preda di ritualità e priva di slanci in apparenza significativi che la giovane Sara, diciott’anni non ancora compiuti, forgia la sua identità di donna consapevolee civilizzata (?), smussando gli spigoli ancora acerbi del suo corpo e della sua personalità.

Il cinema di Minervini ha tuttavia un respiro troppo ampio per concentrarsi sul singolo romanzo di formazione. Il suo obiettivo è al contrario abbracciare tutto quanto gli cresca attorno senza soluzione di continuità, in un fluire armonico della macchina da presa che lo stesso regista definisce “autonarrazione”. E Stop the Pounding Heart di fatto sembra un film erettosi autonomamente, senza l’ausilio di una cervello pensante che gli fosse pregresso. In realtà dietro di esso, da un punto di vista ideologico, c’è un mondo intero, per di più estremamente prezioso: Minervini modella la realtà che gli si schiude davanti con assoluta deferenza, forzando il minimo sindacale i connotati reali dei personaggi per avvicinarli al ruolo che andranno a svolgere nell’apparato di finzione. Senza smuovere più di tanto ciò che essi effettivamente sono nella loro vita di tutti i giorni (i nomi sono addirittura mantenuti), egli li tallona e li pedina, come il più docile e mansueto dei segugi. Con conosce la trivella dello speronamento violento, Minervini: la premessa salvifica di questo capolavoro cristallino è non a caso proprio un patto reciproco tra regista e oggetto del girato, da inviare poi allo spettatore già timbrato e verificato nella sua unicità e sincerità. Come una denominazione di origine protetta, a tutti gli effetti, all’insegna della pudica delicatezza e della poesia. Le creature che invadono lo schermo, umane e non, appaiono allora mosse da una spigliatezza più grande, didattica e rosselliniana. A parlare non è più l’America dello spettacolo rutilante ma quella del quotidiano assimilabile a un’epica nuova, a misura d’uomo e perfino di bambino (Sara ha undici fratelli), antropocentrica per intimo bisogno più che per ostinata vocazione, panteista e spinoziana nel suo ricorso ossessivo al naturalismo. Lo spiritualismo che permea il cinema di Minervini e quest’opera in particolare non è un pegno da pagare per svincolarsi da chissà quale demone occidentale proteiforme, quanto una necessità agognata e inseguita, che deve passare per la verità di ogni singolo essere del creato per potersi veramente concretizzare e legittimare. È questo, al di là di ogni facile e immediato rimando, l’aspetto più autenticamente malickiano del suo cinema.

Minervini lavora a conti fatti senza sceneggiatura, con la montatrice dei Dardenne (guarda caso, a proposito di tampinare) e a stretto contatto col proprio direttore della fotografia Diego Romero anche nella redazione di un canovaccio minimo di storia da svilupparsi, un bozzetto di script lasciato a germogliare progressivamente e firmato in definitiva da entrambi a quattro mani. Non può essere un caso, per un film che parla letteralmente attraverso le immagini usandole come oasi significanti, che cita Carlos Reygadas tra i ringraziamenti e dà voce, con una potenza lirica abbagliante, a una para-America umilissima e non catalogabile, una specie di surrogato evangelico speso tra croci e tramonti, tra letture della Bibbia e moti bucolici. L’ottuso dogmatismo che da essa viene fuori non è mai condannato ma sempre accolto, nel nome di una generica eppure profondissima osservazione antropologica, ispirata da un laicismo totale e umanitario nell’accezione più nobile del termine, così fragoroso da sconfinare nell’umanismo puro e semplice. La lunghissima confessione finale alla madre da parte di Sara, reginetta senza regno in abito bianco, è un momento di cinema incredibile e perforante, imperdibile come tutto ciò che vi sta a monte.

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