Summertime sadness

SUMMERTIME SADNESS: UN TRANQUILLO WEEK-END DI PAURA di John Boorman

REGIA: John Boorman
SCENEGGIATURA: James Dickey, dal suo romanzo Dove porta il fiume
CAST: JonVoight, Burt Reynolds, NedBeatty, RonnyCox, Ed Ramey, Seamon Glass, Randall Deal, Bill McKinney, James Dickey
NAZIONALITÀ: USA
ANNO: 1972
TITOLO ORIGINALE: Deliverance 

JUNGLE FEVER

Un tranquillo week-end di paura non è un horror, ma rientra tra i film che più hanno influenzato tangenzialmente il genere. Le atmosfere e il pathos morboso e sempre sul punto di esplodere del capolavoro di John Boorman non possono d’altronde passare inosservati e anche a distanza di anni risultano un esercizio di tensione in gran parte insuperato, magistrale tanto nel dosaggio di orrore e depravazione quanto nella disponibilità a scrutare l’abisso più nero e a far rizzare i peli sulla nuca degli spettatori. Una corsa in kayak a capofitto nelle rapide si fa raffigurazione di un inebriante quanto terrorizzante senso del sublime, che qui va a braccetto con un’immersione nella natura selvaggia e col sopraggiungere improvviso di brutalità perpetrate per mano d’uomo. Da un momento all’altro, l’adrenalina dei polmoni che si riempono e delle zaffate di vento e salsedine che fendono il volto lascerà il posto a scabrosità varie e addirittura a uno stupro, per di più omosessuale, uno shock non da poco per gli spettatori dell’epoca. Quel corso d’acqua incontaminato e puro al 100 % è insomma l’ultimo vessillo di autenticità e sano spirito d’avventura, prima che un calvario corporale e psicologico travolga i malcapitati protagonisti portando alle estreme e più sadiche conseguenze il conflitto tra natura e civiltà imposto dall’industrializzazione selvaggia.

Nel cult movie divenuto proverbiale del regista di Excalibur, è proprio il dissidio tra la purezza dell’ambiente naturale e l’insorgere dei nuclei umani e – sulla carta -civilizzati che germogliano al suo interno a costituire uno dei perni tematici. Un tema peckinpahiano che il regista de Il Mucchio Selvaggio aveva toccato nei suoi due film immediatamente precedenti il 1972 (l’anno in cui vide la luce Un tranquillo week-end di paura), ossia La ballata di Cable Hoguee l’ancor più cinico e pesto Cane di paglia, che sono rispettivamente del ’70 e del ’71. Ed è proprio a partire dagli umori residuali di quest’ultimo, grandioso film di uno dei più grandi maestri nichilisti della storia del cinema che Boorman sviluppa le atmosfere della sua opera più importante, scivolando organicamente nel racconto di una nevrosi: al di là della scena – fortissima e discussa – della sevizia e degli strilli che l’accompagnano, basti guardare il tremore incontrollabile del personaggio di JonVoight mentre tenta di scoccare una freccia, con le mani e il volto che sussultano di incertezza e inquietudine mentre tiene in pugno un cervo nel mirino del suo arco. Immagini destabilizzanti, emblemi di un crollo definitivo, in grado di rendere benissimo il senso della crisi interiore e valoriale di una società tutta, protesa verso una decadenza e un futuro neri come la pece. La bellezza tutta concreta del film di Boorman è anche la sua quasi totale assenza di virtuosismo, la sua stringatezza elllittica, che è sì non ricattatoria ma ha il merito forse maggiore di non essere etica in senso appiattito e accomodante, sebbene molto spesso si trovi a lavorare di sottrazione: non si risparmia il ribrezzo, ma tutto è improntato a una necessità ridotta all’osso, che eviti i clamori sensazionalistici. Questa tendenza al contenimento entro certi bordi è irreprensibile ma non lesina stoccate ecologiste e memorabili momenti d’antologia che si piegano ben volentieri a un uso più smaliziato ed effettistico del montaggio, come la celeberrima sequenza in cui una chitarra e un banjo dialogano a suon di strimpellamenti e di primi piani convulsi e frastagliatissimi del giovane indigeno che suona lo strumento.

Un tranquillo week-end di paura, come si è detto e scritto spesso, rovescia il mito del buon selvaggio. Una sovversione dell’immaginario collettivo portata avanti col rigore ineccepibile di un teorema, con la vena sprezzante di chi fa a pezzetti un concetto che tanta fortuna ha avuto nel tempo in ambito etico e filosofico. Tutto, in realtà, è fatto a brandelli, persino la possenza fisica e maschia della figura di Burt Reynolds alla fine del film non sembra più la stessa. Gli uomini distrutti di Boorman sono tutti in quei pesci infilizati, in quelle funi che crollano sopra di loro lasciandoli sguarniti da ogni sostegno, in quelle pallottole vaganti dirette chissà dove, come ogni minaccia insondabile che si rispetti. Il ritorno, specie per il personaggio di Jon Voight, sarà disastrato e lacrimoso. Non basteranno il semolino, o le dolcezze di una compagna che gli si accoccola accanto sotto le lenzuola. Rimangono solo una distesa di bare e un totale incapacità di dimenticare un dolore non facilmente alleviabile. Al limite, si può solo cercare di dormire. Consapevoli, però, che la notte è caduta. E non saremo certo noi a rialzarla.

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