VENEZIA 2011 – Giorno 9: sanguinare per riprovarsi di essere vivi

Le ultime gocce di sangue, ce le stanno prelevando, e c’ha pensato Shinya Tsukamoto a recuperare il tempo perduto, con un buon ettolitro. Se Tetsuo: the bullet man nel 2009 era in Concorso e mancava di tutto quel che si si potesse aspettare da un suo film messo (per la prima, per ora unica) volta in competizione, Kotoko, in Orizzonti, ha tutta la forza rimasta all’Autore, martellata come carne dal macellaio (come il volto dello stesso Tsukamoto, coprotagonista) e infilata in qualcosa di nuovo, come coloratissimi vestiti di stoffa. Vedere doppio, vedere il nero, tagliarsi continuamente per accertarsi di essere vivi, uccidere il proprio figlio perchè siamo delle pessime persone. Nazionalpopolare nota: l’anno scorso La solitudine dei numeri primi (ottimo, tra l’altro) di Saverio Costanzo e quest’anno Quando la notte della Comencinibrutta per raccontare ognuno uno di questi argomenti, mentre solo il ritmo martellante di Tsukamoto può inglobarli in qualcosa di più grosso, che sbava grasso al di fuori della cornice. Fedele al digitale, fedele all’intimismo realizzativo, per la prima volta Tsukamoto abbandona il quasi bianco-e-.nero a favore di un’esagerazione di colori, di giochi per bambini, di matite colorate, di bambole di pezza esorcizzanti gli incubi della protagonista. Per la prima volta c’è della commedia (romantica) in senso puro, à la Tsukamoto ovviamente, e la gag madre parte mentre lui cerca l’asciugamano giusto per tamponare la perdita di sangue di lei per i troppi tagli all’avambraccio. Per la prima volta una verbosità definibile “normale”, con il macchiettismo decadente di lei, nuova sassy girl.
E rimane il trip: di vedere le persone raddoppiate, di omicidi e suicidi ipotetici, di figli che non significano altro che la reiterazione del proprio fallimento, del corpo che deve venire devastato per purificarsi, degli effetti sonori industrial anche mentre si friggono delle verdure, della penultima scena che ricorda Gondry, delle pause sigaretta anche in manicomio, del tempo polverizzato dal delirio.

In concorso, ormai, ci mancano solo Johnnie To e Ami Canaan Mann, dopo che William Friedkin s’è fumato via tutti in un tiro solo, con Killer Joe. A bocca spalancata, terrorizzati ed estasiati dalla forza stretta di un pugno dato con un guanto di pelle. Dirige qualcosa che nei dialoghi assomiglia al Tarantino verboso (scambi vuoti fatti per sembrare pieni e viceversa, tenuti in piedi dalla regia, a fatica o con forza), ma che in realtà è immeritevole anche di questa stessa frase. Un cassettone di discorsi texani che di frase dopo frase non ha mai smesso di rischiare di colare a picco. Friedkin, gli anni che ha non li dimostra, anzi. li dimostra perfettamente, ed evidentemente sono poche le persone in grado di viverli a pieno, cinematograficamente. Se Abel Ferrara risente senza dubbio la mancata evoluzione del suo stile (ancora non marcito),Friedkin sembra essere stato aggrappato ad ogni singolo fotogramma dell’evoluzione e della storia del Cinema (americano almeno) lungo tutto la sua carriera, ed è in grado di tenerlo per le palle, di premerlo e di farlo piangere senza che il cinema stesso si accorga di cosa è successo. Il dramma di sangue e pistole non esiste più, l’unica soluzione è farne parodia e drammatizzarlo. Far digrignare i denti all’albiguità. Usare la macchina da presa come un coltello, uno stivale o qualsiasi cosa faccia male.
Arrivare al punto in cui ogni parola detta dai personaggi è tesa come qualcuno stesse per sparare: pochi film ci riuscivano e ci riescono, ma ancora meno sono quelli in cui ci importa veramente qualcosa di quella possibile morte, pur essendo quei tizi un branco di coglioni; ed insieme riderli, deriderli ma non riuscire a togliergli gli occhi di dosso. Il Cinema, Il Fottuto Grande Cinema.

Ancora con la testa fritta nell’olio del pollo unto di Friedkin, tutto diventa leggero e anfiteatrale.
L’ultimo terrestre di Gian Alfonso Pacinotti aka Gipi è il rovescio di quel La pecora nera di Ascano Celestini dell’anno scorso: un non-autore di cinema che viene sbattuto in concorso. Con sorpresa. Perchè L’ultimo terrestre ha tanto, il tanto che sembrava perduto, il tanto che serve per fare una commedia senza ridicolo involontario con gli alieni, i travestiti, i camerieri, la Toscana. Sembra riesumato da quel periodo ormai morto, quello della comicità lunare del primo Benigni, di Nuti, con l’assurdità di Sandro Baldoni o Luciano Melchionna. L’assurdo, da tempo, non sembrava essere così aderente al normale narrare, qui. Il grigio (della camicia da cameriere, degli alieni classicizzati, dei palazzi) autosufficiente per un mood da mattina nuvolosa e riscaldata. L’ultimo terrestre è la storiella che porta con sè tutto, un elogio della semplicità – mai senza la brutalità del grottesco o il negativismo ineluttabile, per quanto candido (o è il bianco slavato da troppe lavatrici sbagliate?).

E poi c’è Sokurov. Il Faust di Sokurov. Eco d’ottone. Il Faust di Sokurov.. Pentolone verdastro di miseria e putrescenza umana. Il Faust diSokurov. Asfittico 4:3. Il Faust di Sokurov. Viaggio con bagaglio in eccesso. Il Faust di Sokurov. Inquadrature strette e distorte. Il Faust diSokurov. Godimento, ma solo concettuale. Il Faust di Sokurov. Il Faust di Sokurov. Il Faust di Sokurov.

In Sok… Aronofsky we trust.

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