VENEZIA 2011 – Giorno 7: piove sangue, il mondo è finito, fumiamo una sigaretta

La verità è che vi diamo l’immagine più bella (che tanto ricorda Love Exposure) del film più brutto della Mostra, The moth diaries di Mary Harron.

La verità è che Sion Sono lascia sempre il vuoto dietro di sé, tanto da non voler più vedere nulla nella giornata in cui ci ha violentato (nuovamente e ripetutamente, anche a distanza – perché la violenza non è più di moda, la violenza è la moda) e anche nel giorno successivo, distorti snob che nel non sentirlo più (il suo languore da oltre-narratore, che nessun altro, almeno qui, ha) le nuove cicatrici non le sentono neanche, resi wolverine, resi polvere, bidoni svuotati davanti ad uno schermo.

La verità è che anche scrivendo poco e male (cioè alla cazzo; cioè con parere negativo) non stiamo soccorrendo nessuna scarsità o eccesso di autostima: giochiamo emulando i migliori autori, la qualità media dei film visti – in qualsiasi sezione – è la più alta da quando esistiamo, dal 2005.

La verità è che il rosso del branding della mostra è il rosso del sangue, il rosso della fine del mondo, l’armageddon che piove silenzioso suLily Cole in un teen movie di terza categoria (Twilight è a cavallo tra la stessa e la quarta, The roommate è quasi in seconda, Easy Girl è praticamente-prima) e che in 4:44 Last day on Earth di Abel Ferrara fa perire l’umanità tutta quasi senza farla vedere, già degenerata e digeribile solo nei discorsi del Dalai Lama, smaterializzata da Skype, nell’eroina che rimane, come tanti anni fa, l’unica soluzione, mentreWillem Dafoe palpeggia Shayn Leigh durante il loro amour fou casalingo e il ragazzo delle consegne del ristorante cinese non smette mai di lavorare.

La verità è che, a proposito di cinesi, questi sono rimasti gli unici (forse insieme ai thailandesi, e visto la catastrofe di Philippe Garrel qui al Lido) a saper fare un film con un uomo monoespressivo che fuma: il film sorpresa, People mountain people sea di Cai Shangjun è un Bong Joon-ho disossato e de-spettacolarizzato, quasi senza narrazione, vengeance movie muto traumatizzato, limpido e panoramico come mai unCrialese potrà mai essere (anche perché gli italiani sono rimasti tra i pochi barboni – spendendo soldi per cose inutili – a presentare pessime copie in pellicola qui al Lido).

La verità è che tutti questi luoghi comuni geografico-nazionalistici sono veri e sono comodi.

La verità è che in questo momento anche nella crema delle brioches vediamo cataclismi, apocalissi urbane, dialoghi intimisti, silenzi ossessionanti, traballanti scene d’azione.

La verità è che se si potesse fumare in sala ci metteremmo a guardare gli arabeschi grigio-azzurri nell’aria, perché Muller quest’anno è riuscito a convincerci che ogni Cinema è bello punto-e-basta – sono le opere e gli autori a dover/poter essere fallaci/feroci – e che è meglio un brutto film che una bella giornata, almeno per undici giorni nel duemilaundici fino all’undici settembre.

La verità è che l’accredito lo possiamo leccare come una rana, usarlo per tagliarci le vene, detonarlo per porre fine alla vita dell’uomo che cercavamo, per onorare il funerale della donna della nostra vita, se è la protagonista di A Simple Life di Ann Hui (ancora: Io voglio una vita tranquilla (la la) anche se sono (d)Andy Lau ricco e senza tormenti), l’unica capace di curarci almeno in parte – per quello che dice, che altro non è che il come (corrispondenza mai da darsi per ovvia) – dalla crocifissione invisibile dataci da Sion Sono e anticipata da Solondz.

La verità è che i giurati di quest’anno sono tutti sottopeso, giovani e vecchi.

La verità è che il mondo sabato finirà: perché Darren Aronofsky sceglierà un film non all’altezza – e in quel momento ci sentiremo noi troppo bassi; perché Andrea Arnold ha girato una versione di Cime Tempestose come se il mondo fosse già finito da un pezzo.

Ma, ancora:
in Aronofsky we strust.


 

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