LA COLLINA DEI PAPAVERI di Goro Miyazaki

REGIA: Goro Miyazaki
SCENEGGIATURA: Hayao Miyazaki, Keiko Niwa
NAZIONALITÀ : Giappone
ANNO: 2011
USCITA: 6 Novembre 2012

GORO E IL FRENO A MANO

Attoniti a scrutare le rovine fumanti (leggasi: squilibrio strutturale e incoscienti sbavature registico-narrative) sui titoli di coda del pastrocchio I racconti di Terramare, esordio di Goro Miyazaki e monco pastume, orientato all’epico ma pletorico e farraginoso, spoglio di poesia e di incanto panteistico, che tentava impennate da denuncia sociologica ma rimaneva soltanto da denuncia, attendevamo il figliol prodigo al varco della seconda prova.

È pur vero che fin dall’inizio incombeva incontrastabile su di lui l’ombra lunga dell’immensa – sotto tutti i punti di vista – opera omnia del padre Hayao (da principio restio alla sua iniziazione filmica, da lui ritenuta prematura); cantastorie prolifico e stratificato, spesso portavoce di esperienze infrasensoriali (Totoro), di stralci rigogliosi e libranti, quando non trasudanti dolore: il sangue dei colori di carta restava sulle mani a fine visione. Giacché Hayao Miyazaki ha saputo scandagliare i mali endemici della società capitalistica, l’amore come reflusso salvifico dell’animo e bacino della memoria, il lavoro e il sacrificio come elementi pregnanti e propulsivi della crescita personale; ed eroine femminili intrepide e coriacee che cominciavano ad affacciarsi sul mondo, l’anima ferita dei sogni, il baluardo della fantasia che (fa) vola(re) nell’universo (perfettamente e pienamente esemplificato dall’albero materno di Laputa, sospeso fra sole e nuvole). Alla stregua di un fanciullino avventato, il sensei era stato in grado finanche di re-immaginarsi e re-inventarsi, con la foga genuina di una rinnovata conoscenza-creazione, nella stupefazione cristallina dell’innocenza infantile: ed ecco Ponyo sulla scogliera.

L’idillio familiare (e lo scarto artistico-generazionale) si è però ricomposto dando origine a La collina dei papaveri, di matrice manga, allo script Hayao e alle redini Goro: era pertanto lecito aspettarsi un salto in più, un valico oltre la soglia dell’ordinario animato, da parte del rampollo dello studio.

Dunque, cos’abbiamo? Una love story post bellica tracciata in punta di penna, un quadretto pregevole e pittorico, finemente cesellato, di limpida linearità. Ma che rivela gradualmente il proprio fiato corto, che risente sovente di alcuni tocchi descrittivi esondanti e oltremodo espositivi (le fotografie riproposte ripetutamente), e che, pur arricchito delle tematiche paterne (il travaglio amoroso, la lotta dei giovani contro il conservatorismo di adulti rimossi)  è, ancora, soltanto capace di sfiorarle, di lambirle in un mare aperto che ispira calma piatta e non s’infrange contro la tormenta, non collide con la passione, è inabile a vivificare di interiorità il profilo gentile e garbato dei due protagonisti, cullati appena placidamente in un pallido languore.

Poi: nella parte centrale, la più debole, il dramma che blocca il progressivo evolversi del percorso affettivo è frettolosamente presentato e risulta arduo parteggiare con la tensione emozionale delle due anime in pena, mentre maggior interesse lo suscita il fermento studentesco che si solleva attorno alla riesumazione, al restauro e al soccorso (metaforico e letterale) del Quartier Latin, ultima fortezza di una cultura assediata ma protetta da un manipolo di eccentrici bohèmien. Peccato che la dialettica imperniata sul duello modernità-tradizione venga ahimè risolta attraverso gag e personaggi minori da anime generico, e tramite dialoghi graziosi benché spenti nel loro tutelarsi dalle macchie di vita.

Quasi intimorito dal suddetto banco di prova, Goro sopprime il cuore pulsante di un groviglio sentimental-familiare potenzialmente esplosivo sotto un crogiuolo da ritrattista paesaggistico: e sì, la grazia è linda e ammirevole, la lentezza del passo carezzevole e fluida, l’accuratezza della ricostruzione etnografica encomiabile, tuttavia manca il guizzo, il salto dell’asticella, per via sia di una scrittura troppo cauta, attenta a non eccedere, tendente alla letargia e finanche prevedibile, sia di una regia stavolta accuratamente avvinghiata al freno a mano, brulla e rasoterra per quanto confacente al servizio della storia.

Perfino il minimal Arrietty – Il mondo segreto sotto il pavimento aveva più corrente elettrica, più silenzio irradiante, più strazio sentimentale; perché, ed è quasi straniante da attestare, La collina dei papaveri si rivela a conti fatti una sorta di Piccoli problemi di cuore su sfondo para-contestatario e flebilmente politico, un tantino didascalico e ridondante, coraggioso (fino ad un certo punto) soltanto nella inaspettata (ma non troppo) torsione del coup de théâtre, poi purtroppo (attenzione, spoiler in agguato!) prontamente smentito: i binari del politically correct catalizzano qualsiasi altro sommovimento.

Insomma ci si trova di fronte ad un tentativo d’evocazione soave che incespica sul suo stesso passo più lungo della gamba (pensiamo al sogno-rimembranza di Mer che si sfalda in un accenno freudiano intrigante ma prontamente (s)troncato sul nascere dal/dell’happy end).

Tirando le fila, l’onda d’urto perturbante di un narratore come Miyazaki – ma anche di altri ghibliani come Takahata o, appunto, Yonebayashi – e la loro scossa misterica e magistrale restano stavolta periferiche, confinate nei rumori e sguardi di fondo, tra due bandiere che sventolano, sotto una pioggia battente e un tram in partenza, incapaci di perforare lo schermo e la carne, di imbrattarci di inaudito incantamento.

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