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Cannes 2018: Lazzaro Felice di Alice Rohrwacher: I’m someone new, I’m someone stupid just like you

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Regia: Alice Rohrwacher
Sceneggiatura: Alice Rohrwacher
Cast: Adriano Tardiolo, Sergi López, Nicoletta Braschi, Alba Rohrwacher, Tommaso Ragno
Anno: 2018
Produzione: Italia, Svizzera, Francia, Germania 

La contraddizione di un film giace tutta nel suo titolo. È un assunto raramente effettivo, di certo non edificante, ma che è d’obbligo per parlare dell’ultimo, incensatissimo (pure premiato) lavoro della Rohrwacher. Punto secondo: non è bene polemizzare parlando di film. Lo si fa raramente, di nuovo, quando l’autrice ha da dire la sua sullo stato di salute della critica cinematografica (a nostro parere, più viva che mai, per quanto clandestina, nomade, trasformata), pronta – quest’ultima – a fare del disservizio ai registi del contemporaneo. Battibecco con la SNCCI a parte, sarebbe meglio che Alice Rohrwacher pensasse alla fortuna che ha avuto nel ricevere tante, tantissime critiche positive in riferimento al suo ultimo “Lazzaro Felice”. Fortuna e felicità.

Lazzaro è nel Vangelo di Giovanni colui che viene resuscitato dal miracolo di Gesù in Betania, che muore una seconda volta per volere dei sacerdoti, ritenuto prova evidente del potere pericoloso del Cristo. Una fine pietosa alla quale – nulla togliendo al discepolo Giovanni – si dovrebbe voler dare nuova, contemporanea (attuale, immortale) dignità. Assumendo, giustamente, Lazzaro a protagonista: personaggio a tutto tondo, o figura simbolica attraverso cui mediare la parabola biblica. Diamo a Lazzaro motivo di essere al mondo, facendogli del bene. Lo chiameremo “Felice”.

Ma Lazzaro non è felice. Lazzaro è l’incarnazione di un essere vivente (pensante?) che non può essere felice, perché della felicità egli non ha coscienza (e cos’è la felicità senza la percezione raziocinante della stessa? Esiste?); Lazzaro è un arbusto sacro in mezzo agli immondi steli lacustri del creato, vivificazione del pane e del sangue di Cristo, che della sua figura di riferimento ha soltanto i piedi scalzi. Perché, Alice, Lazzaro – figura cristologica, appunto, para-cattolica (perché, non dimentichiamoci mai che “povero è buono” e “ricco è cattivo”), è un giovane tonto? In sostanza, pronto ad accogliere i mali del mondo cadendo da una rupe perché intento a osservare il sole e risvegliandosi Messia. Chi è Lazzaro? La matassa spurgata dalla società viziosa e malata dell’alto-borghese, il capro espiatorio errante? L’unico in grado di ascoltare il richiamo di Dio e di far ammutolire un organo alle devote sorelle che, varcata egli la soglia della chiesa, non riescono a riconoscerlo per l’essere puro, mondo, speciale, tonto che è?

Lazzaro, come puoi essere felice, morto per i peccati della stolta, aristocratica umanità facendoli tuoi per una sorta di misunderstanding cognitivo? Non puoi. E infatti Lazzaro non è felice. Lazzaro è un povero stronzo che perde la propria casa, la propria famiglia, l’amico/compagno che non farà che ingannarlo una vita intera, un povero minchione raggirato e sfruttato dalla sorella per degli affari furfanteschi da bancarella, illuso dal ritrovato amico d’infanzia divenuto un impoverito signore dal lungo cappotto, disorientato, bastonato dalla fiction degli episodi (parabole?) disgraziati che si affastellano uno dopo l’altro (sentiamo il suono flagellante del silicio che si accanisce sul personaggio, sul protagonista!), tanto che l’epilogo tragico che vuol essere sacro è per lui, lo si annusa, scontato dal primo frame. Lazzaro perisce, insanguinato, per aver nuovamente creduto nella bontà dell’amico: perisce, non come Cristo decide di porgere l’altra guancia conscio del torto ai suoi danni perpetuato, perché non capisce, non vede, ha una visione distorta e masochista della realtà, perciò si abnega. Probabilmente la nostra visione è altrettanto ideologicamente annebbiata che qualcosa di questo coming of age massacrante ci sfugge – lo ammettiamo. 

Ma cos’è sacro, cara Alice? Bisognerebbe chiederlo a Pier Paolo Pasolini e ad Edipo (che non vogliamo risvegliare da quello che fortunatamente non è un sonno, ché altrimenti sarebbe incubo), al Rossellini di Francesco, Giullare di Dio (e quella era una commedia, pace all’anima di entrambi); dall’altra parte dell’oceano a Paul Schrader, o, sul versante opposto, a Martin Scorsese. Non chiediamolo a nessuno. Forse per portare alta la corona di spine della sacralità bisogna essere dei poveracci. Buoni e stupidi. Bisogna spolverare l’argenteria del Neorealismo. Ma non è soltanto un problema di etica, sebbene sia il nocciolo di un film venuto male, ma di scrittura: quindi Lazzaro non è felice. Lazzaro è buono, e per essere buoni, c’è da esser stupidi.

La conclusione è che non c’è alcuna via salvifica per questo mondo: quando i buoni, vestiti di stracci, percorrono le vallate agre dell’Italia come zombie, e muoiono inconsapevoli delle cattiverie mondane, non c’è riscatto. Ma non c’è alcun bisogno di riscatto. Essi stanno bene dove stanno. Ci sarebbe da scomodare la morale, la gerarchia dei valori e delle classi politiche, ma il film parla sufficientemente da sé.

Ed è di fronte a una caduta negli abissi così devastante (sadica, furba, scorretta: Io sto con tutti i Lazzari del mondo) che vizi di formato (1.66:1), vizi di ripresa (16 mm), attori superlativi (Adriano Tardiolo è un Lazzaro migliore di quello che la sua sceneggiatura gli ha chiesto) e maestria registica periscono, appassiscono, si schiantano al suolo con il fragore di una picchiata, chiedendo scusa a tutte le bestie umane (agnelli di Dio?) che si sono offese nella realizzazione di quest’opera.

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