C(o)unt to Zero Dark Thirty: POINT BREAK di Kathryn Bigelow

REGIA: Kathryn Bigelow
SCENEGGIATURA: W. Peter Iliff
CAST: Patrick Swayze, Keanu Reeves, Gary Busey, Lori Petty, John C. McGinley
NAZIONALITÀ: USA
ANNO: 1991

IL MITO, L’ISTINTO, IL COOL, LO SBANDO (CHE PIÙ DRITTO NON SI PUÒ)

Accostarsi ad un mito dalle chiavi di lettura offuscate: cos’ha dato a Point break la propria fama. I divi, il pop. L’essere noti per i motivi sbagliati? Storia, generica, la diffusione e confusione primaria, un certo snobbismo. E se ogni regista ha almeno un cult, midcult, misunderstood cult; questo è senza dubbio quello di Kathryn Bigelow. Ma, in sottile differenza, il suo modo di creare e di mettere in scena, non viaggia sul parallelo della coolness di cui Point break è inscindibile compagno di ballo: metallicamente fuse assieme le due componenti, quello della Bigelow non è (come non è stato prima e, soprattutto, poi) un andare a raccattare tra i temi più o meno in voga; tutta il suo Cinema è basato sull’aderenza e sull’andare delle informazioni, al tempo vissuto/vivibile/guardabile, che è sempre quello portante del dato momento, e, sotto più aspetti, quello più affascinante, e talvolta necessario. Come rubasse, masticasse, leggesse particolare per particolare, l’occhio generale, generalizzante, forse ingenuo, ma di certo genuino: quello della Bigelow è Cinema del tempo presente (dell’immediato contemporaneo, delle correnti cinematografiche e non – americane – del momento). E se a fine anni ’80 era tempo di vampiri, a millennio scadente era quello della fantascienza, e adesso quello della realtà, nascosta e/o digitale, c’è sempre spazio per le sue storie, per i suoi nervi, per i piccoli gruppi di uomini allo sbando, senza autentiche vittime o macchiettistici carnefici, ma individui (uomini più che donne – ché in Point break la sola ragazza si chiama Tyler) che inseguono la propria natura, quella di spietati (come se la pietà fosse una deviazione o un sentimento accidentale, ma comunque da tirar fuori dai giochi) cacciatori e della loro guiding light, consapevole o meno che sia. E se col vampirismo poche ulteriori sfumature sono necessarie, e la guerra di The Hurt Locker non può che portare al baratro, Point break gode di maggior libertà, tra FBI, surf, filosofia, scacchismo innvestigativo, paracadutismo. Con i vestiti sbiaditi e consunti di qualche anno prima, dando il morso ad un immaginario differente e più serioso; confabulando con i meccanismi del crime movie (senza distinzione tra serie A e serie B, se mai ce ne fosse bisogno), prima della rivincità della realtà sul mito autentico, quello che stava a cavallo tra il possibile e lla sensazione immaginifica d’infinito.
E cercava e trovava realmente l’onda, Kathryn Bigelow, se da plot Point break poteva rientrare nel mazzo dei bmovie  con faccia-a-faccia finale nel deserto, aleggiando sul genere, anticipando sia Seven di Fincher che Heat di Michael Mann, già pienamente capace di plasmare una nuova malinconia cinematografica di un decennio appena iniziato. Nell’aderenza pop, Point break fa una cosa oggi meno immediata: intingere di dramma, di strazio e di catarsi un insieme di immagini necessariamente realistiche attraverso la propria esposizione visiva, con i suoi corpi delineati come fossero progettati, con le sue prospettive marmoree, con i tagli (di montaggio, di inquadratura) che soverchiano qualsiasi dubbio dell’occhio. Cavalieri medievali plasmati dal 1991, la Bigelow realista/fantasticatrice è in Point break al suo massimo. Il suo ondulare e modularsi tra cinema di genere e divinizzazione approfondita è qui libera, come non potrebbe essere mai adesso (e forse più): tra il fantasy estremo (cioè costretto nella sua forme) e l’indagare realistico e reale, lei s’è schierata col secondo. I suoi vampiri sembravano soldati, i suoi surfisti angeli, ma non è più tempo per queste misture, per questi filtri magici; ché la guerra è guerra, e il suo stile carnale non può fare a meno dei notiziari, dopo esser passato per Il mistero dell’acqua. E se quello d’adesso viene chiamato Cinema di denuncia, si tratta di Cinema snaturato, ché raccontare d’un rapinatore di banche che attendeva un’onda da cinquat’anni, ovviamente, non denunciava nulla, ma diceva tutto.

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