PALMA D’ORO: LA VIE D’ADÈLE di Abdellatif Kechiche

REGIA: Abdellatif Kechiche
SCENEGGIATURA: Abdellatif Kechiche

CAST: Adèle Exarchopoulos, Léa Seydoux, Jeremie Lahuerte

NAZIONALITA’: Francia

ANNO: 2013

ADÈLE: UNA STORIA D’AMORE

All’inizio Adèle, quindicenne, è una ragazzina scemotta, di quelle tante che si vedono in giro, sull’autobus o in metrò, in gruppo, che continuano a ridere. Ha un flirt con il ragazzo più carino della scuola, ambito da tutte le sue compagne. La ragazza non sembra particolarmente coinvolta nel loro primo rapporto sessuale e la storia dura comunque poco. La vita di Adèle cambia quando conosce Emma, una sua coetanea dai capelli tinti di blu, che le fa scoprire la passione e l’amore veri, l’essere donna, il diventare adulta. Passano gli anni. Adèle cresce, cerca se stessa, si perde e si ritrova…

Al suo quinto lungometraggio, Abdellatif Kechiche torna ai temi e alle atmosfere de La schivata, agli adolescenti francesi, ai giovani degli strati sociali più bassi, delle periferie, della provincia. Tiene il fiato sul collo ai suoi personaggi, li scandaglia con una macchina a mano che mostra perennemente i primissimi piani dei loro volti. Una generazione che delinea per la sua vitalità, che si mostra nelle manifestazioni colorate di piazza, nei gay pride, e per il suo pragmatismo plasmato dalla crisi: Adèle non ha ambizioni particolari, vuole fare l’insegnante elementare perché il corso di studi è breve e può così inserirsi nel mondo del lavoro il prima possibile.

Con questo film, il regista franco-tunisino realizza, in tre ore, un romanzo di formazione, dove la scoperta dell’omosessualità rappresenta una tappa della crescita, uno dei passaggi verso la vita adulta. Non si tratta di un film militante a tematica gay, oppure lo è  implicitamente, proprio per il fatto di non esserlo dichiaratamente. La relazione saffica tra Adèle ed Emma non è ostacolata, non è considerata antisociale, anche se la protagonista non riesce a confessarla ai genitori. Non si respira un clima d’omofobia, di repressione, tra gli adolescenti francesi raccontati da Kechiche. Che, in fondo, racconta semplicemente la vita di una ragazza, protagonista di una storia d’amore che segue tutte le tappe canoniche. L’incontro, lo scoprire che sta nascendo qualcosa dentro, la vita di coppia, la crisi, la rottura e la “rimpatriata” anni dopo con la tentazione di tornare insieme. In un film che abbraccia un arco di tempo di tanti anni, seguendo Adèle che va scuola per vederla entrare nel mondo del lavoro. Si tratta quindi di un Io & Annie trasposto tra gli adolescenti odierni, in chiave lesbica. Proprio nella sua normalità, nel suo essere una love story tout court, come tante altre, che segue regole universali, che può avvenire qualunque siano le combinazioni di genere dei due innamorati, che il racconto di Kechiche può assumere un valore di impegno civile, nell’affermazione dell’assoluta normalità della condizione di omosessualità. Vi è comunque una delicata analisi psicologica delle due ragazze. Emma è lesbica integralista mentre di Adèle si suggerisce abbia almeno un pizzico di eterosessualità. E la crisi nasce non perché la prima non riesca ad accettare la possibilità di essere stata tradita, quanto perché non tolleri che la compagna possa essere stata con un uomo.

Le scene di sesso tra le due protagoniste sono lunghissime, esplicite. Eppure non hanno nulla a che vedere né con la pornografia né con l’erotismo patinato. Sono rappresentazioni reali, naturali. Sono scene necessarie, che non possono essere omesse, per esprimere l’intensità del rapporto d’amore delle due ragazze. Hanno un che di scultoreo e di pittorico. E rientrano in quella fisicità e in quella carnalità che passano per le secrezioni corporee – Adèle che piange con il volto ricoperto di lacrime e muco – come per la sua bocca unta dal sugo degli spaghetti.

Tutta la storia del film si gioca attraverso una fitta trama di sottotesti, citazioni letterarie e pittoriche esplicite, declamate anche in un contesto di bassa estrazione sociale, di persone umili e semplici, che la vulgata vorrebbe non colte. Si parte da Marivaux (già riferimento cardine de La schivata), da cui Kechiche vuole riprendere la forza e l’autodeterminazione delle giovani donne come la protagonista della sua opera La vie de Marianne, per arrivare a Camus, Hugo, Picasso e anche a Louise Brooks, le cui immagini fanno da sfondo in una festa. E naturalmente citato anche Courbet. Come il precedente film del regista, Venere nera, anche questo film ruota attorno all’inseguimento della rappresentazione della vagina, il principio femmineo, della vita, della speranza, del mistero, come la definisce Kechiche. Non è nelle scene sessualmente esplicite che vengono inquadrati i genitali femminili, ma in un’unica immagine, quella di Adèle distesa nuda, con il pube depilato, che fa da modella che la ritrae, sublimandola, su un quadro con un pube invece particolarmente villoso.

Parzialmente tratto dalla graphic novel Le Bleu est une couleur chaude di Julie Maroh, il film viene presentato con il sottotitolo “Chapitres 1 et 2″, prefigurando ulteriori sviluppi. Adèle sarà l’Antoine Doinel di Kechiche.

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