IL LATO POSITIVO (SILVER LININGS PLAYBOOK) di David O. Russell

REGIA: David O. Russell 
SCENEGGIATURA: David O. Russell
CAST: Bradley Cooper, Jennifer Lawrence, Robert De Niro, Chris Tucker
TITOLO ORIGINALE: Silver Linings Playbook
NAZIONALITÀ: USA
ANNO: 2012
USCITA: 7 marzo 2013

La vita è un gioco della follia il cui cuore ha sempre ragione”
Elogio della follia, Erasmo da Rotterdam 

La vita è un gioco di centimetri. E così è il football.
Perché in entrambi questi giochi, la vita e il football, il margine d’errore è ridottissimo.
Mezzo passo fatto un po’ in anticipo o in ritardo e voi non ce la fate. Mezzo secondo troppo veloci o troppo lenti e mancate la presa. Ma i centimetri che ci servono sono dappertutto, sono intorno a noi, ci sono in ogni break della partita, ad ogni minuto, ad ogni secondo”.
Ogni maledetta domenica, Oliver Stone 

Ora puoi, il fisico ce l’hai, per fare la rivoluzione che aspetto.
Niente dirò e tu non capirai, affronta la rivoluzione allo specchio”

L’impressione iniziale rasenta il déjà vu “verdoniano”; in bilico tra dramma e commedia, sorretto da antidepressivi e coralità di un cast ipocondriaco. L’effetto è inatteso, spiazzante, in spontanea sintonia con l’atmosfera disturbata e psicolabile che lo circonda. Una sensazione presumibilmente lontana dalla realtà oggettiva, eppure termometro utile a comprendere come, David O. Russell, sia riuscito nell’intento che profuma di impresa: confezionare una pellicola dal feedback universale conservando animo e abitudini smaccatamente americane; divenire testo sprovincializzato senza rinunciare alle proprie origini autoreferenziali. Un pregio raro e inestimabile, che Silver Linings Playbook ostenta con giustificato e comprensibile orgoglio.

Redenzione e riscatto, la metafora affezionata alla filmografia di David O. Russell s’impossessa (anche) de Il lato positivo, fondendo in un tutt’uno sceneggiatura e regia: la seconda intenta ad assecondare i tic bipolari imposti dalla prima con movimenti improvvisi e strappi irregolari, figli dei repentini sbalzi d’umore che automaticamente si traducono in manualità di ripresa, centrifuga tecnica che è degna cornice della dilagante e quotidiana follia rappresentata. Sfacciato e visivamente irruento, Silver Linings Playbook si lascia tuttavia monitorare all’interno di una precisa eredità di genere statunitense: Elizabethtown e La mia vita a Garden State vegliano sull’ultimo Russell; l’immagine di un giovane uomo dall’equilibrio interiore ormai perduto, che fa ritorno nella casa d’infanzia, unita ad un irrisolto rapporto con il padre e ad un inaspettato incontro femminile a segnare l’inizio della rinascita emotiva, confermano il sospetto appena prima che Il lato positivo prenda le distanze dai presunti modelli, rivelando il suo animo sportivo, lo stesso che si discosta all’istante da un Moneyball o dall’ultimo Muccino per farsi sottile traslato; decifrando il playbook del titolo originale come la password d’ingresso utile ad accedere alle radici squisitamente americane della pellicola.

Playbook come il libro degli schemi di gioco da mandare a memoria: movimenti, posizioni, partenze ed arresti, tempistiche d’esecuzione e tracciati. Il compagno e al tempo stesso  l’incubo giornaliero di ogni giocatore di football che si rispetti, diviene l’immagine designata a custodire l’intero significato allegorico del film, in quanto sinonimo dei “12 steps” che separano Bradley Cooper dalla serenità ritrovata. Più dei dialoghi di scuola “alleniana”, ad un passo dall’overlapping, o delle citazioni sparse di Hemingway o Golding, è il playbook di cui sopra a meritare attenzione massimale, in quanto elemento decisivo affinché l’atto religioso, sportivo e di vita si compia come gioiosa e liberatoria catarsi attraverso la realizzazione di un rito collettivo, che travalica concezione e confini stessi del semplice sport tramutando(si) in ragione esistenziale; senso d’appartenenza nazionale che David O. Russell rivendica nella sua fruizione più genuina: domestica e domenicale, sfruttandone appieno le potenzialità extra agonistiche, né più né meno come The Fighter si nutriva delle innumerevoli sfumature (meta)cinematografiche rintracciabili nella noble art.

Silver Lainings Playbook è elogio della follia capace di evolvere in racconto della rinascita, che si realizza concentrandosi sui passi da compiere e sulle distanze da colmare affinché l’inizio del cammino si trasformi ben presto in meta raggiunta, rinnovamento realizzato, guarigione definitiva. David O. Russell consente ai capitoli della sua storia di rincorrersi in una strada residenziale, tra le villette a schiera medio borghesi, microcosmo nella metropoli; lascia ai suoi personaggi il tempo necessario per familiarizzare, gli mostra la via da seguire prima di farli incontrare definitivamente sulle note di Girls from the north country.

Passi di jogging, passi di danza. Punti da sommare, sfide da vincere. Equilibrio e centimetri che decidono la posta in palio definita da una scommessa impossibile. La necessità di una seconda chance che ossessiona il cinema tutto di David O. Russell si tramuta nel preludio dell’empatico crescendo finale: balsamo per l’anima, unguento in grado di lenire anche la scorza più dura, disillusa e menefreghista; convincendola che si, a volte, almeno al cinema, è giusto che finisca così.

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