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Juliet, Naked – Jesse Peretz: Hornby dà, Apatow toglie

Regia: Jesse Peretz
Sceneggiatura: Tamara Jenkins, Jim Taylor, Phil Alden Robinson, Evgenia Peretz
Cast: Rose Byrne, Ethan Hawke, Chris O’Dowd
Anno: 2018
Produzione: USA, Regno Unito

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L’elenco di film tratti da opere di Nick Hornby sembra stia seguendo una parabola discendente. Dopo il trascurabilissimo Slam – Tutto per una ragazza di Andrea Molaioli (2016), ci voleva il dannato post-mumblecore Jesse Peretz ad abbassare ulteriormente l’asticella.

Suoi 18 episodi di Girls su 62, suo Quell’idiota di nostro fratello. E se la sua cifra stilistica è quella di rappresentare in modo pessimo esseri umani pessimi che fanno cose pessime, forse dobbiamo prenderla così com’è.

Lungi da avere una morale, o dal voler innestarla, ma la commedia, a suo modo, è il genere morale per eccellenza: non la deve né imporre né raccontare, ma contenerla. E averla in sé significa, rimestata/rimaneggiata/stravolta, darla. E più sottile è, meglio è. Discorso diverso per le “commediacce”, dove che tutti sbrachino è doveroso.

Ma non è né “costruttivo” né di pura caciara dar luogo a una vicenda in cui tutti i personaggi si crogiolano nell’errore, nella propria miseria, nel fare del male agli altri, nel tradirsi, nel “trattarsi male” con un sottotesto che legittimi la totale assenza di responsabilità, mescolando derive intellettuali e sindrome di Peter Pan in forsa gassosa. Juliet, Naked fa unicamente ciò: trasmette con fierezza la pochezza di personaggi adulti, adorna di presunto spasso l’essere approssimativi nei rapporti umani e verso la vita tutta. E talvolta è questione di sfumature, altre di solchi profondi, ma sempre e comunque di regia, una regia che lascia sconcertati per come permette che ogni cosa vada alla deriva in un totale compiacimento evidentemente artificioso e poco spontaneo, dove ogni malessere e ogni passo falso dei protagonisti viene piegato a beffa asettica da osservare e con cui consolarsi, in una sorta di vitellonismo tanto tardo e privo di un mordente emotivo da risultare preoccupante.

Non che ogni commedia debba essere Noah Baumbach o Seth Rogen (intesi come facce, quindi opposte, di una stessa medaglia), ma nemmeno un manifesto di “orgoglio incapace” quale Judd Apatow (questa è la sua ennesima produzione su tale fierezza) ci ha abituati ad assistere (tranne le volte in cui a dirigere sono stati Autori o lui stesso).

 

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