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Tanto per i teoremi quanto per il marketing: INSIDE OUT di Pete Docter e Ronnie del Carmen

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REGIA: Pete Docter, Ronnie del Carmen
SCENEGGIATURA: Pete Docter, Meg LeFauve, Josh Cooley
NAZIONALITÀ: USA
ANNO: 2015

Clamore indicibile al Festival di Cannes, fazzoletti stropicciati e applausi scroscianti, recensioni iperboliche (“miglior film Pixar di sempre e suo zenit definitivo”), fangirlamento come nemmeno le groupie degli OD. L’amatissimo Inside Out arriva dopo qualche empasse dello studio d’animazione più acclamato al mondo (Brave – Ribelle), e non è soltanto una boccata d’aria fresca che riporta la Pixar agli splendori rigogliosi di Wall-E e Up: è anche il salto nel vuoto e la sfida assoluta più ambiziosa e ardita che la Casa abbia mai intrapreso. Raccontare il passaggio conclusivo dell’infanzia, la fine di un’età dell’innocenza, che avviene spinta da moti così semplici all’esterno, e così universali e complessi all’interno, costruendo un film a misura di essere umano (adulto, ragazzo, bambino), un’opera totale perfetta per i teoremi critici tanto quanto per il marketing, era impresa erculea e la Pixar vi si è predisposta con un concept geniale, che riunisce il poetico e il ludico, l’analitico e il caotico.

Protagoniste sono infatti le cinque emozioni primarie, rese antropomorfe e perfettamente caratterizzate, circondate da un universo stratificato strutturalmente, che visivamente è un parco giochi profluvio di invenzioni e delizie deliranti e dinamiche, ma appena più sotto, nel suo sostrato comunicativo e tematico, s’apre a una lettura della realtà emotiva, psicologica e terapeutica, uno squarcio colorato sui segreti della nostra intima meccanica psichica e neurocognitiva, trapiantata in una versione accessibile ai bambini che rideranno davanti alle facce irresistibili delle emozioni, e agli adulti che ritroveranno in esse la limpidezza della fanciullezza e lo scotto da pagare – il mix maturo delle protagoniste, un’unione che fa non la forza ma la crescita – che è la visualizzazione dei loro limiti. E l’essenzialità di consegnarsi alla tristezza per poter poi abbracciare la gioia con consapevolezza di noi stessi, del mondo, di una vita che si sprigiona nella sua interezza cosciente.

Una tappa importante nel percorso pixariano, Inside Out, un film d’animazione da manuale al quale, tuttavia, non ci sentiamo di elargire l’etichetta di capolavoro. Eravamo così disabituati alla grandezza dello studio tanto da, forse, non vederne i piccolissimi tratti dalle soluzioni sovente blande (Gioia che per raggiungere Tristezza usa i fidanzati immaginari; ma a non convincere pienamente sono anche la rapidità con cui riconosce l’importanza del ruolo di Tristezza, e il lieve meccanicismo delle reazioni di Riley allo sganciamento delle emozioni).

Sia chiaro, sono pecche veniali, ma staccano Inside Out da una completezza onnicomprensiva che, al contrario, la Pixar aveva già colto cinque anni fa, con quel Toy Story 3 pulsante di dolorosa maestosità, profondità metacinematografica, stupefacente maturazione interna (lì, si narrava dell’accettazione di una finitudine, e del passaggio all’adolescenza), e persino connessione socio-politica (l’asilo-lager). Un picco che dubitiamo lo studio riuscirà ad eguagliare in futuro: i miracoli, dopotutto, sono irripetibili per definizione.

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