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Le Garçu – Maurice Pialat: if you ever get close to a human

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Regia: Maurice Pialat
Sceneggiatura: Maurice Pialat, Sylvie Danton Pialat
Cast: Gérard Depardieu, Géraldine Pailhas, Antoine Pialat, Dominique Rocheteau, Fabienne Babe
Anno: 1995
Produzione: Francia

 

È impossibile guardare l’ultimo film di Maurice Pialat senza farsi contagiare da alcuni elementi extra-diegetici che ne fungono da corollario iper-significante. In questo senso Pialat è un regista coercitivo. Ti obbliga a interessarsi della sua vita al di fuori dello schermo, ché si ha la sensazione che a quanto si è esposti in poco più di 90’ canonici (e armoniosi e sufficienti) non possa esistere se non c’è una coscienza negli occhi che gli stanno di fronte: come si può non pensare che un garçon è Antoine Pialat? Che la madre Sophie è Sylvie Pialat, tanto che un personaggio ce lo ricorda sbagliandone il nome? Come si può pretendere la smagnetizzazione di Depardieu (il padre) che è stato il suo alter-ego negli anni e che qui si prende la responsabilità di portarne a compimento la parabola artistica?  
La sommersione totale nel suo universo è anche una finestra spalancata che Pialat stesso apre come un divaricatore sul proprio organo cardiaco.
Ne cola un’ordinarietà sopra le riga che è il minimo comune denominatore delle esplicite conflittualità e contraddizioni dell’uomo che è motivo d’ossessione nel suo cinema.

Negli anni la mdp di Pialat si è fatta più mobile, o è arrivata a una necessità di approccio più fisico ai corpi della messa in scena, di certo non estinguendo i campi medi e fissi a cui era affezionata, mentre insorge un bisogno di prossimità semantica tra le sequenze, come se fosse rasserenata la pacificazione con i nessi di un discorso meno imperativamente disarticolato, a flash. Tutt’altro che un flusso, tuttavia, Le Garçu (come il figlio che fu, papà Gérard, chiamava il padre ora morente, in un’assonanza genialogica tra garçon e garçu): c’è un prendersi e lasciarsi, un volersi bene che sormonta le categorizzazioni relazionali (ché anche se non si sta insieme…), un papà geloso di un patrigno che è forse miglior padre di lui, lui che di responsabilità non sa che farsene e che col figlio vorrebbe solo giocare.
Per questo Le Garçu è un film anzitutto sull’essere padri, laddove il bambino essenzialmente è, ed è facile rincorrere l’immaginazione di una recitazione che si annulla dinnanzi alla vita: Antoine che non deve recitare, che è un bambino come tanti, e per il quale l’opera non si mette a servizio, seguendone cioè il punto di vista, approssimandone prospetticamente i pensieri. No, il punto di vista è per forza quello dell’adulto (e Pialat non parla di quel che non conosce, è questa l’onestà del suo atto di Cinema, un atto naturalmente e forzatamente ego riferito), dell’adulto maschio, che è ancora il Loulou che non riesce a farsi uomo, ma che ora quel figlio l’ha avuto; nella chiusura, certo obbligata, di un cerchio, Gérard/Maurice porta a compimento il suo svisceramento dell’ego frammentato della figura maschile che ancora, se può, s’appende alla manifestazione virile della propria pratica sessuale e proietta le esigenze d’autorevolezza e responsabilizzazione su quella femminile/materna. Non è a caso che il tutto s’interrompe (il campo nero, nullo) sempre come tagliato da un monito di censura, come non fosse lecito vedere oltre, sul corpo della madre Sophie/Sylvie che si commuove al tavolo di una trattoria, tra le interazioni giocose del padre con il figlio e le domande che Gérard le rivolge (“mi sta bene questo completo? davvero?”), nella evidenziazione di una naiveté che rinsalda la progressiva femminilizzazione del maschio.

 

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Abbiamo aspettato che l’umanesimo di Pialat si mostrasse nelle forme sensibili che gli sono da sempre proprie in questo che è un insight su come è possibile persino spiegare, normalizzando, la disfunzionalità di una classificazione della famiglia moderna (sono gli anni ’90), nel suo essere sfilacciata e dissonante eppure sempre, ottimisticamente, potente e potenziale nei confronti del figlio. Antoine non è un bambino infelice. E Pialat non pretende di saperne interpretare il mondo interiore.
In un solo movimento di macchina Le Garçu riesce a riassumere il significato (se è lecito parlarne lateralmente) di un atto artistico, ripetuto per tutta una carriera in formule capaci di attraversare i generi e poi tornare a spogliarsi, lasciandosi pelle ed ossa: la camera riprende due coppie al tavolo (tra cui Gérard/Sophie) mentre chiacchierano di nulla, per poi spostarsi, all’attacco di Human Behaviour, Björk (!), lentamente, verso la pista da ballo dove una manciata di persone stanno eseguendo dei movimenti di danza abbastanza de- sincronizzati, un ballo di gruppo che è una sorta di incespicare all’unisono confuso e imperturbabile. L’inquadratura sosta abbastanza da indicarci che quell’insieme mostruoso e affascinante vuol dire qualcosa, per poi saltare ai commensali intenti in un discorso solo apparentemente accidentale: una ragazza commenta “mi piacerebbe stare con qualcuno e poi avere un bambino… Vado a ballare”, e Gérard risponde “attenta, potresti trovare proprio qualcuno che ti metta incinta”. L’inquadratura torna sul ballo di gruppo e sull’introduzione incongrua nel campo della ragazza che si muove, ballando liberamente. “Scommetto che sono dottori, sono sicuro che faranno qualche lezione di anatomia stasera”, apostrofa acido Gérard, intavolando un monologo tutto sommato abbacinante sulla miseria tutta umana di quel ballo. Ed è solo un esempio del fitto campionario di assunzioni terribili (cioè spietate) che Pialat mette in bocca ai suoi personaggi (o i suoi attori per lui), quasi come fosse impossibile essere umani, o pensarsi tali, senza essere in qualche modo sprezzanti, senza cioè usarne la spregevolezza (la propria e l’altrui) per domandarsi qualcosa. Come indispensabile presupposto per amarli, nel loro agire illogico e disordinato e costantemente perturbante. Ogni volta tornandoci sopra come una fissazione, cercando disperatamente un sollievo nell’orchestrazione della propria vita nella finzione. 

 

If you ever get close to a human
And human behavior
Be ready, be ready to get confused

There’s definitely, definitely, definitely no logic
To human behavior
But yet so, yet so irresistibile.

And there’s no map.

 

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