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Liquido amniotico spaziale digitale viscerale: GRAVITY di Alfonso Cuarón

gravity venezia 70 (3)

REGIA: Alfonso Cuarón
SCENEGGIATURA: Alfonso Cuarón, Jonás Cuarón
CAST: Sandra Bullock, George Clooney
NAZIONALITÀ: USA, UK
ANNO: 2013

(AMPLIAMENTI DA: VENEZIA 70: Giorno 1 e mezzo – In the blind, in the blood)

Come se I figli degli uomini si concludesse, adesso, dopo sette anni, con un finale lanciato nell’allucinazione spaziale, galleggiante, spaziosa. Ma si tratta di Alfonso Cuarón: e l’immersione è chiara e morbida, l’ansia ricostituita (verso l’annullamento) nel dondolio leggero. La sua macchina a mano riesce ad apparire istintiva, come afferrasse casualmente uno spettacolo (drammatico), anche quando doverosamente e completamente artificiale. Riesce a rendere come non si rendesse conto, dove la costruzione è l’illusione che questa non ci sia (o che, ancor meglio, sia di importanza vitale/mortale), come d’un cinema che non stupisce e non vuole stupire: che stupito di per sé, semplicemente invita, conscio della sua primordiale natura narrativa, senza scopo. Con la sfrontatezza dell’apparire sommesso e mai ostentato, inquadrature molli e ammortizzate, REC di un fantasma che non è già-morto, ma già-rinato.

Il Cinema di Cuarón rimane insieme troppo grosso e troppo personale per riuscire e concentrarsi in un’unica entità, ammainato nei confronti del vento spaziale, dell’accadere,  della natività, che soggiunge, dopo un sogno-incubo di formazione, riformazione, ricreazione. La concezione rimane sedata, tra l’orbitare e uno sciame di rottami spaziali di più; ancora, di nuovo, la storia di un miracolo personale, che del blockbuster canonico ha unicamente il portafogli, mentre la malinconia della sua protagonista è il frastuono maggiore e le immagini corrono, ubriache e come rintronate/sedate, in un’eutanasia reversibile, o una grande operazione chirurgica.

In ritardo, nella trama, tolto Clooney (che fa Clooney) di mezzo, ritrovato il montaggio, perso il dogma del pianosequenza,  liberato il corpo di Sandra Bullock (bellezza moritura/ibernata: Sandra Bullock forever), la frenesia si fa chiara, parallela concezione vitalistica. (In)vita. Speranza ed Esperanto (la casa di produzione): elementari, d’un Buddha, d’un’icona russa, dell’abbaiare in comunicazione radio con un cinese, del tornare d’un Clooney più Martini del solito. Y tu mama Tambien in una vasca-da-bagno/navetta-spaziale/sistema-solare, Cuarón rifà, da capo, i propri tem(p)i: lunghe linee visive dalla narrazione ossuta, gestazioni globali ripulite d’ogni sporcizia fin da subito, raccontando ancora di come la carne morta possa tornare ad avere la possibilità d’essere calda (e di morire in un altro modo, a proprio modo): dalla cgi (per quanto “bella”, per quanto nuova, per quanto perfetta) allo sputo terracqueo del bagnasciuga, della sabbia dei graffi.

Gravity parte come una gigantesca bolla, vuota e nel vuoto, d’artificio autorigenerante, nei fini e nei raffinamenti d’una grossa vasca buia, cieca, calda, ma anche riscaldata: s’avverte il set (come in Vita di Pi), s’avvertono la meccanica e lo stile ossessionato della pesantezza leggera.
Vuoto uno: lo spazio.
Vuoto due: i volti grigiastri e quasi appena percettibili dentro i caschi, i corpi scafandrati.
Vuoto tre: il divo e la diva, quindi l’assenza e l’essenza, la non necessità dello spettatore d’elaborare visi.
Vuoto quattro: l’assenza di stacchi.
Vuoto cinque: liquido amniotico universale.
Vuoto sei: il posticcio e il grigio brillante della cgi che paiono un dipinto ad olio.
Vuoto sette: il film è finito, esci e vai a vivere.

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