PEARL JAM TWENTY di Cameron Crowe

REGIA: Cameron Crowe
SCENEGGIATURA: Cameron Crowe
CAST: Jeff Ament, Matt Cameron, Stone Gossard, Mike McCready, Eddie Vedder
NAZIONALITA’: USA
ANNO: 2011

I’M ALIVE: DON’T CALL ME SON, DON’T CALL ME GRUNGE

Sopravvivere. Questo l’infinito attorno al quale gravita Pearl Jam Twenty. Sopravvivere a una moda (il grunge), ad un anthem (Alive), al dolore provocato dalle morti premature (Andrew WoodKurt Cobain o la tragedia di Roskilde), alle battaglie legali (la controversia ideologica con Ticketmaster), o semplicemente ai batteristi che lasciano vuoto il posto dietro le pelli. Pearl Jam Twenty non è soltanto un documentario su un movimento musicale, bensì l’onesto e genuino omaggio esternato nei confronti di una band con la B maiuscola, sopravvissuta alla sua stessa natura: selvaggia, viscerale, schiva e maledettamente sincera. Grunge nonostante dalla palestra del grunge (ovvero l’etichetta Sub Pop) non provenissero, al tempo stesso grunge in quanto ideati da chi il grunge lo ha musicalmente inventato (Stone Gossard Jeff Ament, prima di Ten già con i Green River e i MotherLoveBone), i Pearl Jam vengono catturati nella loro essenza da un Cameron Crowe in forma smagliante. Pagato dazio con la superficialità di Singles, l’ex redattore di Rolling Stone riesce finalmente nel tentativo di riallacciare i ponti artistici ed emozionali con la capitale del rock dei primi ’90: Seattle. Il Soundgarden, Chris Cornell, i Nirvana, gli Alice in Chains. Praticamente un tuffo al cuore. Hunger Strike dei Temple of the Dog svezza il giovane Eddie Vedder, il demo dei Mookie Blaylock si trasforma nella “perla da lucidare”, la morte di Andrew Wood viene esorcizzata mentre l’adolescenza cede, di colpo, spazio all’età adulta (si presti attenzione, a tal proposito, alle parole di un commosso Cornell), l’epopea ha inizio. Cameron Crowe onora i Pearl Jam immortalandoli nello stesso modo in cui dovrebbero essere considerati e ricordati: come una band nata in e da un ambiente amichevole e cameratistico, dal quale ha succhiato e si è nutrita, ne evidenzia spessore, contributo e importanza dei musicisti pareggiandoli al frontman: raramente così distante dalla consueta sovraesposizione mediatica, vulnerabile, terreno, tutt’ora alle prese con un irrisolto conflitto paterno e il voler vivere, seppur artisticamente, come i Fugazi. Pensi a Eddie Vedder e soci e immagini una rock’n'roll band da tutto esaurito, non un carrozzone con le chitarre distorte ma quasi. Poi ti fermi, guardi Pearl Jam Twenty e realizzi che non può esistere pensiero più sbagliato, depistante e mistificatorio di quello formulato poco tempo prima. Cameron Crowe arriva al cuore della loro musica, la ripulisce dalle classifiche e dai premi vinti, ne amplifica la sostanza asciugandone il volume, tanto che Daughter, uno dei brani più emozionanti mai scritti dai Pearl Jam, viene mostrato esclusivamente nella sua fase di composizione, su un tourbus: chitarra e voce, con ancora il provvisorio titolo di Brother. Eccoli i veri Pearl Jam, alternativi con i fatti e non solo a parole: vent’anni di carriera dedicati ad un riuscito incrocio tra i Led Zeppelin e gli Who, innamorati dell’Italia, appena due videoclip all’attivo (questo se a Jeremy si affianca il cartoonesco Do the Evolution), un ariete ideologico atto a boicottare, all’apice del successo, il monopolio del colosso Ticketmaster, Bu$hleaguer eseguita con la maschera dell’ex presidente statunitense impiccata all’asta di un microfono, nonostante i fischi di un pubblico sì americano, ma non per questo necessariamente amico. Almeno politicamente. Cameron Crowe mette sul piatto tutto questo e anche di più, forse addentrandosi eccessivamente nell’only for fan durante la seconda parte, confezionando però un prodotto al quale vale la pena assistere: non fosse per l’estratto live durante il quale Chris Cornell  “bracca” Eddie Vedder sulle note di Hunger Strike o quando quest’ultimo, nel backstage di un MTV Awards, balla goffamente abbracciato ad un divertito Kurt Cobain. E scusate se è poco.

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