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Festival del Film di Roma 2013 / Maverick Director Award – TSUI HARK: 30 anni e 3 rivoluzioni – 2° parte

Originariamente pubblicato il 31 marzo 2010

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Arriviamo così al 1995, l’anno dell’opera massima di Tsui Hark che rappresenta l’inizio della sua terza rivoluzione. Ma stavolta si tratta di una rivoluzione funesta che da una parte non porta a nulla e dall’altra segna il distaccamento del regista dai gusti del pubblico. Dopo avere reinventato l’estetica del wuxia e dopo che in appena un decennio essa era stata del tutto assorbita, abusata e ormai quasi del tutto inaridita (Matrix, il prodotto forse più innovativo di Hollywood degli ultimi decenni, che riparte da lì, arriverà paradossalmente 4 anni dopo, ovvero quando il genere e il metodo ad Hong Kong è ormai morto, finito e in fase di dimenticanza, ossia con un ritardo storico allarmante) decide di rimettere mano al genere e rivoluzionarlo un’ennesima volta. Prende tecnicamente a prestito un film –egualmente ardito e inarrivabile- di King Hu come Valiant Ones e ne affila e aggiorna il metodo di mostrare l’azione. Il wirework viene abolito, l’azione frammentata e accelerata ancora, le luci diventano accecanti e epilettiche, il furore e la violenza insostenibili e verosimili. The Blade, questo il titolo, è un capolavoro inarrivabile, avanti troppi anni rispetto alla prontezza percettiva del pubblico. La fatica e l’impegno del regista nei confronti dell’opera non viene ripagata dagli spettatori e Tsui, demotivato, compie, ultimo tra i suoi colleghi, il venefico salto verso Hollywood.
Il primo film in loco Double Team è una marchetta appena dignitosa mentre il secondo, Knock Off, si rivela nientemeno che le prove generali per il suo grande ritorno in patria, nonché sorta di opera di “spionaggio industriale”. Non accetta di dover fare arretrare la sua incontenibile inventiva e decide di applicare il “nuovo” metodo agli altri generi come in passato. Il figlio di questa scelta è il roboante action balistico Time & Tide. Con coerenza, come ai tempi della fondazione della Film Workshop, Tsui riattiva il suo sguardo verso le nuove tecnologie digitali. Ecco così un sequel del suo classico Zu: Warriors from the Magic Mountain che al momento dell’uscita è il film con il maggior numero di effetti digitali mai realizzato al mondo. Di nuovo Legend of Zu è un’opera troppo ardita e astratta per farsi amare da un pubblico di massa.
L’interesse del regista però resta fisso al digitale spesso usato –come in passato- non attraverso una metodologia classica e codificata, come nel resto del mondo, ma mettendone sempre in dubbio ogni sua più elementare base creativa. Inventa così due idol virtuali per MTV, produce un film tratto da un fumetto (da cui successivamente trarrà anche un corto animato) composto da attori in carne ed ossa che interagiscono con personaggi digitali (Master Q), e si interessa all’animazione dove –su sue parole- i limiti tecnici dell’attrezzistica contemporanea e fisici dell’attore, non possono limitare la sua fantasia costruttivista. Al contempo si applica al teatro e si muove come illustratore e colorista.
I produttori statunitensi e le loro ingerenze –di nuovo- rendono un brutto film, il sequel di Black Mask.
Arriviamo così all’anno del colossal Seven Swords, proseguo più “popolare” dell’idea del realismo applicato al wuxia, di nuovo controcorrente visto che la moda del momento è dare in mano a registi/autori noti (Ang LeeZhangYimou…) dei wuxia patinati e colmi di digitale vistoso e wirework all’antica. Nonostante il basso successo del film (abbastanza per chiamarsi successo, non abbastanza per mettere in cantiere i sei sequel previsti) la storia gli da di nuovo ragione e la strada del realismo diviene quella adottata dai vari registi nei successivi film del genere.
Dopo un film/esperimento, Triangle, ovvero un “cadavre exquis” cinematografico gestito da altri due maestri (Ringo Lam e Johnnie To) oltre a sé stesso e l’anonimo MissingTsui torna alla commedia sentimentale al femminile, con il chiassoso All About Women, penalizzato solo da una sceneggiatura, non sua, sfilacciata e diluita. Lo stile però è sempre lo stesso, fiammeggiante e inventivo.
Alla fine del primo decennio del nuovo secolo attendiamo la sua nuova opera, ovvero un adattamento delle gesta dell’eroe letterario Judge Dee, osservando il suo cinema ormai totalmente lontano dal rapporto privilegiato con il pubblico di un tempo. Troppo avanti e ardito per uno spettatore impreparato, troppo alieno in un cinema cambiato che lui stesso aveva (re)inventato. Lo stile resta, l’inventiva anche, ma è il mondo stesso ad essere mutato e Hong Kong per primo. Tsui sembra per la prima volta incerto e dubbioso sul futuro come la Hong Kong post landover di cui è stato nome di punta e bussola cinematografica.
La tecnologia (forse) permette ormai le sue visioni ma i budget –e soprattutto i costi- non sono più quelli di una volta e forse la forza di osare e ribaltare un sistema inizia a scemare nonostante ogni sua sequenza odori sempre di altissimo cinema.

Postilla: Alcuni anni fa Tsui mi disse “perché scrivi un lavoro sulla mia carriera ora? Attendi un decennio, ho ancora molto da dire”. Da parte di chi scrive, massima fiducia verso il maestro.

Nota: il modo per capire al meglio il metodo che ha fatto deflagrare il cinema di Hong Kong degli anni ‘80 e ’90 e di cui Tsui è stato artefice è quello di guardare un film poco noto e solitamente snobbato e deriso; si tratta della sua scombussolata produzione Wicked City, raro esempio di fantascienza cantonese ma puro e cristallino manuale di storia e tecnica cinematografica assolutamente innovativa e illuminante nella sua foga avanguardistica.

FINE SECONDA E ULTIMA PARTE (QUI LA PRIMA)

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