SHUTTER ISLAND di Martin Scorsese

REGIA: Martin Scorsese
SCENEGGIATURA: Laeta Kalogridis
CAST: Leonardo Di Caprio, Mark Ruffalo, Ben Kingsley
ANNO: 2010
NAZIONALITA’: USA 

GOTICO AMERICANO

La critica “in” sembra non aver ancora compreso la svolta filmografica intrapresa da Martin Scorsese. Facile capirne il motivo: Illusa da una passione verso un autore che solamente come e in quanto tale non avrebbe mai avuto motivo di esistere, continua imperterrita ad aggrapparsi alle produzioni pre Oscar, puntando testarda il dito su Al di là della vita, eletto ad ultimo esempio di una poetica ormai assopita. Peccato che Scorseserappresenti altro rispetto a certi crogiuoli cinefili, perché disinteressato verso qualcosa che non sia esclusivamente devota infatuazione per la settima arte. Non è un caso che la sua carriera abbia subìto un’impennata all’indomani diUn viaggio nel cinema americano (appena prima di Mean Streets), per germogliare nuovamente con Gangs of New York, uscito a sua volta a due anni di distanza da Il mio viaggio in Italia. Guarda caso due tributi, sentiti omaggi alla musa ispiratrice della tradizione storica dai quali partire e ricominciare. Parimenti è il genere ad esser sempre stato elemento caratterizzante del suo percorso, oggi ancor di più, visto che a Hollywood gli anni ’70 sono finiti da tempo. Il nuovo Scorsese è passato attraverso il fantasma di David Wark Griffith ed è sopravvissuto alla mitologia di Howard Hughes, per poi conquistare l’ambita statuetta con The Departed, senza dubbio la migliore tra le sue opere minori. Adesso Shutter Island, probabilmente uno dei più convincenti esempi di cinema classico portati in dote dagli ultimi anni: Sostenuta da una regia monumentale, ineccepibile tanto per piglio tecnico quanto per eleganza stilistica, la pellicola viene esaltata dalle geometriche perfezioni scenografiche pensate e ricostruite per l’occasione dall’impeccabile Dante Ferretti; non lesina sorprendenti incursioni nella video arte, senza per questo rinunciare a sporcarsi le mani al momento opportuno con il nero della mente e il rosso delle mani.

Shutter Island è una riuscita gothic novel, che respira in lontananza l’aria violenta e psicoseriale di cui si nutriva Cape Fear, salvo rivelare ben presto molti degli scorsesiani modelli di riferimento: due ore abbondanti che permettono all’autore di costruire un solido castello d’inganni sostenuto saldamente dalle lezioni impartite da Samuel FullerJohn Frankenheimer eAlfred Hitchcock. A riportare alla mente il primo provvedono una serie di reiterati e latenti rimandi al Corridoio della Paura, uniti all’asfissiante ricordo relativo agli orrori della Seconda Guerra Mondiale, che in loop percuote instancabile la sottotraccia per nulla rimossa della narrazione; contemporaneamente la suggerita paranoia figlia della fantapolitica di Và e Uccidi lascia trasparire il dazio da pagare verso il modello successivamente ripreso da Jonathan Demme. Dulcis in fundo, l’innegabile omaggio nei confronti del “re del brivido”, tirato in ballo tramite la malata atmosfera della casa di cura che tanto ricorda Io ti Salverò, e successivamente scomodato attraverso l’inquietante femminile inevitabilmente debitore di Vertigo.

Per nulla appesantito da una durata che poco ha a che vedere con la media del thriller e dintorni, Shutter Island celebra ogni minuto, posa o sequenza come un ingranaggio oliato a dovere, intervallo di tempo necessario e perfettamente funzionale affinché il meccanismo complessivo riesca, perfetto, nella sua matematica realizzazione, convincendo anche e sopratutto grazie al rivelatore colpo di teatro, certamente accademico nel suo voler essere fino in fondo delucidato alla maniera di Psycho, ma comunque tremendamente efficace ai fini della chiosa sugli eventi. Al centro della scena un solenne Leonardo Di Caprio, ennesimo man of violence della galleria scorsesiana totalmente alieno alla realtà, emarginato schizoide incapace di comprendere quanto la cella detentiva rappresentata dal fittizio rifugio della sua mente, sia decisamente peggiore e dannosa rispetto alla prigione che vi è fuori. Da qui l’obbligata prospettiva di immortalarlo alternando tagli “di quinta” che ne esaltino la trasversalità della dimensione, alle inquadrature dal basso verso l’alto, in grado di enfatizzarne il distacco rispetto all’effettivo piano di realtà.

Sui titoli di coda ci si guarda indietro, e si finisce per scoprire che ultimamente solo Michael Mann ha saputo fare meglio di Martin Scorsese. Con buona pace di chi lo dà già in declino, poco ispirato, o peggio ancora finito.

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