SANS TITRE di Leos Carax

REGIA: Leos Carax
SCENEGGIATURA: Leos Carax
NAZIONALITÀ: Francia

ANNO: 1997
DURATA: 9 minuti

SANS TITRE – IL MAGMA INDEFINITO

Nel 1997, Cannes chiese a Leos Carax uno short film che fosse una specie di cartolina-omaggio in occasione dei cinquant’anni del festival e che al contempo desse notizie di lui e del suo prossimo progetto. Una richiesta decisamente stimolante e lusinghiera per qualsiasi regista, a testimoniare un apprezzamento per il suo lavoro decisamente non da poco. Nonostante tutto, nonostante il gigantismo fallimentare del fiasco (per lo meno) commerciale de Gli amanti del Pont-Neuf  (per chi scrive è un feroce e slabbrato capolavoro, ma commercialmente fu,com’è noto, un disastro come pochi altri…). La didascalia che apre il corto – della durata di quasi nove minuti – chiarisce immediatamente la natura di ciò che vedremo, o meglio, si limita a precisarne le coordinate spazio-temporali e le condizioni che ne hanno determinato la genesi. Il contenuto del cortometraggio si rivela poi com’era prevedibile un’opera di assoluta e sconfinata libertà: Carax si abbandona allo sperimentalismo più estremo, si concede autoreferenziali e solipsistici cartelli che inframmezzano la visione (“How Can I?”), realizza di fatto il suo lavoro più vicino alle composizioni più radicali di Godard e nella fattispecie al flusso incontrollato, affastellato e iper-intellettuale delle Histoire(s) du Cinéma. Associa suggestioni tratte da un mash-up di frammenti del cinema muto, del quale vengono mimati i contrassegni estetici, il libero associazionismo del cinema marcatamente psicanalitico, l’affezione per le catastrofi naturali, la lava e la cenere dei vulcani, passando dal rabbioso allo struggente, dal tenere all’erotico. Sans titre è un bombardamento estasiante e tonante di immagini che scorrono in libertà, una furiosa collettanea tra affine a quella New Wave tanto cara a Carax. Ballerine, cascate naturali, lacerti seppiati: una manciata di minuti magmatica e ribollente, un montaggio grezzo e alcolico, che alterna squarci bellici a pennellate accennate del suo film che sarà, quel mortifero e terminale Pola X che ha da venire e che vedrà la luce e la ribalta di Cannes solo due anni dopo. Un mix all’acido muriatico, che in forma estemporanea e contratta per ovvie ragioni di minutaggio riassume ottimamente ciò che il cinema di Carax vorrebbe essere se potesse navigare sempre a briglia sciolta e con questa autonomia, ma che per ovvie ragioni non sempre può anelare a diventare. Un lungometraggio d’altronde richiede sempre un equilibrio, una sfrondatura e una sintesi in più, pur tenendo ben presente che Carax è comunque un cineasta più votato all’accumulo che alla semplificazione. Nel finale si materializza anche il pubblico, quell’audience che qui ride e si diverte un po’ inspiegabilmente in una specie di apparizione solare proprio in chiusura e che tornerà tale e quale ma sovvertita di segno in Holy Motors,in una forma ben più criptica e misteriosa: una sala, un cane, un regista (?) che attraversa un varco impossibile e poi si limita a scrutare dall’alto l’anonimato incupito e indecifrabile dei suoi spettatori. Carax, d’altronde, è così: multiforme e antitetico, fatto di opposti che si completano specularmente. Guai a pretendere da lui la coerenza: equivarrebbe a condannare a morte la sua autorialità sfuggente, fatta di silenzi, apparizioni centellinate e chiusure ermetiche in se stessa che hanno reso il nostro Leos, tra gli amanti di un certo cinema, popolare e appetibile quanto la rockstar dark di maggiore grido (manco fossimo ancora nei gloriosi anni ’80 dei boys meet girls).

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