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Testa/coda, cuore/sangue, Lauda/Hunt: RUSH di Ron Howard

RUSH

REGIA: Ron Howard
SCENEGGIATURA: Peter Morgan
CAST: Daniel Brühl, Chris Hemsworth, Olivia Wilde, Pierfrancesco Favino
NAZIONALITÀ: USA, Germania, UK
ANNO: 2013

Passando dalla falegnameria blockbuster (Il codice Da Vinci, Angeli e demoni) a una commedia(?) sovrappeso (Il dilemma), e attraverso questi ripulendosi, lo spirito da vecchia pagina ingiallita del cinema del Ron Howard (principalmente di questo secolo) riesce a tenersi e rimostrare tutta la propria sporco innamoramento, tutta l’audacia e la decisione che ha sempre portato l’occhio a non distrarsi, per un motivo o per l’altro, davanti ai suoi film.

Meccanicista, archivista, fantasma bibliotecario, semplicista: Rush è ancora il bourbon americano xx years old di Cinderella Man, la riduzione (all’)essenziale di A beautiful mind, il racconto da barba e sputacchiera di qualche vecchio yankee a tarda notte (o di ovunque ci sia una luce abbastanza fioca).

Come In Frost/Nixon: il Lauda/Hunt non ha buoni e cattivi, ma è un fluire, un gemellaggio di caratteri e personalità, un’entità unica, un convivere di due corpi complementari che da subito han chiaro il loro equilibrio necessario nella narrazione, al di là dell’essere avversari, del duello, dell’inimicizia, per poter esistere, respirare. Entrambi vanno e afferrano l’istinto e la morte, lungo il diametro della Formula 1: Hunt scalzo e sporco di sangue, Lauda con la tensione nei denti, nelle guance, negli occhi. La droga vs i calcoli. Un ciuffo biondo vs un colletto abbottonato. Una vita afferrata, una vita morsicata. Il cuore (che perfetto pompa) e il sangue (che libero sgorga). Nell’eroismo da circuito, tra i soffi della morte, perenne presente, primordiale ma secondaria. Non amici, non nemici: uomo & uomo, nell’estensione dell’artificio e del loro operato, nei loro strumenti e nella fisica-fisicità: la dialettica in Frost/Nixon, le vetture e la meccanica adesso (ed in questo, Il dilemma appare quasi propedeutico, almeno come “lezione” su come ascoltare il motore di un’auto), i porti e le palestre di Cinderella Man.

Rush è un film sul morte-in-funzione-della-vita, una piccola mitologia sull’ipotesi di come pensarlo, immaginarlo e di come concedersi ad esso; sul confine-tratto-recinto (un circuito automobilistico, matita sbavata) che fa sì che sia la prima a determinare la seconda, senza “giusto” o “sbagliato”, senza errore (imperdonabile), senza assoluti. Hunt la tocca sempre e non la pensa mai, Lauda la pensa sempre e non l’ha ancora toccata. Uno vomita ogni volta, l’altro brucia una sola.
Una geometria di pensieri, una lista di possibilità, una composizione d’opposti, come è disegno tecnico e blue print d’ambienti: patina digitale e 70’s, filologico caldo/freddo, arancio/blu, sempre lercio e sudicio – di pioggia, d’olio, di motore, di sudore.
Una nube nera da tempesta, cecità da temporale, copre Rush, come racconto medievale di due cavalieri, di cui Howard riesce nuovamente riesce a farci vedere l’ombra, l’ego, i fantasmi, il luccichio, le spade. Togliendo, spostando, edulcorando, come sempre, ma senza (quasi mai) far(ci) mancare nulla.

Homo faber fortunae suae, buonanotte piccolo.

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