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Geometrie morbose: LO SCONOSCIUTO DEL LAGO di Alain Guiraudie

lo sconosciuto del lago (1)

REGIA: Alain Guiraudie
SCENEGGIATURA: Alain Guiraudie
CAST: Pierre de Ladonchamps, Christophe Paou, Patrick d’Assumçao, Jérôme Chappatte
NAZIONALITÀ: Francia 
ANNO: 2013

THRILLER CEREBRALE AL COITO

Un parcheggio desolato, un bosco, un lago ieratico. Lo sconosciuto del lago si attacca ai luoghi, agli spazi che dialogano tra loro, alle geometrie di un congegno impeccabile in cui la gestione delle atmosfere e la resa del loro gelido carisma riveste un ruolo di primissimo piano. Alain Guiraudie fa un film queer su una spiaggia consacrata agli abbordaggi omosessuali girandolo con la classe sopraffina di un thriller cerebrale privato in gran parte dei meccanismi di tensione: al loro posto, dei coiti continui e apparentemente senza importanza, meccanici, animali e rituali. Ci sono l’iperrealismo del guardone che si masturba spiando gli amanti attraverso i rami e le foglie, la bucolica, sensuale rapacità degli orgasmi, la reiterazione sfrenata dell’approccio sessuale. Tutti elementi che se da un lato potrebbero sembrare vanamente insistiti dall’altro vanno a puntellare la struttura del film donandogli un fascino irripetibile, morboso e raggelato, come se il porno fosse stato congiunto chirurgicamente alla Nouvelle Vague con un bisturi, come se un Bruce LaBruce qualsiasi avesse incontrato un Eric Rohmer e poi intrapreso la strada aulica e contemplativa di un cinema naturalista di paesaggi e d’istinti, d’auto abbandonate e onde del mare che s’increspano poeticamente, come cullate dai suoni e dai climax erotici consumati in dei nidi d’amore improvvisati alla bell’e meglio tra gli alberi.

Il premio alla regia Un Certain Regard pare dunque sacrosanto per un film dalla mise en scène (è proprio il caso di dirlo) di abbagliante nitore, in cui la nudità è per i personaggi strumento primario di abbandono agli spettatori e per questi ultimi garanzia di una coerenza estetica che alla lunga finisce per rapire lo sguardo, irretendo anche nell’(eventuale) irritazione. Lo sconosciuto del lago è infatti pieno di un vitalismo non gratuito perché (in)chinato costantemente alla corte della morte, una vicinanza d’opposti pericolosa e stimolante che Guiraudie motiva tirando giustamente in ballo un’autorità in materia come Georges Bataille («L’erotismo è l’approvazione della vita fin dentro la morte»). Lo stesso alone mortifero e inebriante che dominava un’opera altrettanto ripetitiva e manifestatamente gay come Cruising, della quale questo film sembra capovolgere le tenebre in luce ma mantenendo intatta la sostanza nonostante l’inversione di segno operata dal punto di vista visivo e fotografico: i congiungimenti sessuali dei protagonisti sembrano contenere al loro interno una condanna a morte già preordinata, un senso d’oppressione che si respira anche in scene più classiche come quella in cui il protagonista Franck è in acqua e vede traballare i monti e le vallate dell’isola sotto i suoi occhi, secondo il consueto meccanismo polanskiano de Il coltello dell’acqua. Una regola ferrea secondo la quale la vera, profonda claustrofobia va restituita a chi guarda per contrasto e più grande è l’estensione della realtà intorno a sé tanto maggiore sarà lo spaesamento carico d’angoscia del soggetto.

Il rigore torbido de Lo sconosciuto del lago non abita tanto nelle fellatio e nelle penetrazioni ma piuttosto in tutti quei campi lunghi nei quali sembra abitare una sorta di implacabile terzo occhio onnisciente, che tutto vede e – cosa più importante – tutto ci fa vedere. Non importa se la crime story che il film mette in gioco nel momento in cui comincia a scivolare verso la conclusione poggi su premesse già ampiamente intuibili, perché la natura intimamente hitchcockiana dell’operazione alberga in un oracolo ben più ostico della trama mistery fondata su un colpevole da individuare. Si tratta di una semplicità assoluta, basata sulla fissità e sull’uniformità livellata della visione, sui non detti di un’intimità amicale del tutto platonica (quella del protagonista con l’attempato Henri) e sulla magia ribaltata di un bosco che non ospita creature fantastiche ma solo espressioni frontali dell’umana dipendenza dagli impulsi della carne, ritratti con onestà, senza filtri e pregiudizi alcuni. Il finale aperto proprio come il protagonista sembra sgranare gli occhi nell’oscurità per scorgere nuovamente il volto di un assassino percepibile al massimo grado eppure già evanescente, ennesima prova di come Guiraudie riesca e rendere tangibile la presenza di un ulteriore osservatore che pare acquattato in ogni inquadratura ma con inamovibile distacco, riluttante verso ogni tentazione voyeuristica.  Lo sconosciuto del lago riformula tutti questi elementi in una consapevole e luminosa astrazione delle forme, della costruzione psicologica dei personaggi e delle loro dinamiche così rarefatte, ricorrendo a stratagemmi suadenti che si rincorrono in un gioco di rifrazioni. Riflessi che paradossalmente si negano allo spettatore con alterità e superiorità, nonostante il loro essere estremamente palesi e ripetutamente espliciti in più di un’occasione, ben oltre il sesso e l’accoppiamento. Un valzer dai movimenti arcani e rarissimi, una danza macabra in cui l’incanto del mistero (quello autentico, non facilmente scioglibile) domina cupo dall’inizio alla fine, polimorfo e indecifrato.

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